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L’arcivernice: Ogni cosa a suo tempo… (sessantasettesima puntata)

Pubblicato il: 04/11/2013 10:14:37 -


“Quello vero, quello della 'durata'. Il tempo fisico è una finzione senza durata. Se tutto l'universo si muovesse più lento, diciamo, il doppio più lento, non cambierebbe niente nei nostri orologi. Ma la tua sofferenza sarebbe doppia.”
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Più che d’insonnia, Ramon soffriva a volte di risveglio precoce. E quando gli capitava, in verità non così spesso, non c’era verso di riprendere sonno. Decise pertanto, anche quella volta, di eseguire le procedure del mattino, e cominciare la nuova giornata, malgrado fosse ancora buio, praticamente ancora notte.

Là fuori, un raro biancheggiare cominciava appena a rendere alle cose le forme che la notte aveva sottratto. A Ramon era sempre piaciuto osservare questo lento passaggio dal buio alla luce; ne era affascinato.

Lento quanto? E che ora era, poi? Ecco il demone del pensiero, che a sua volta si risveglia dal disordine onirico, a rivendicare di nuovo la sua forma di logos. Il tempo. Mistero infinito pensò Ramon. E il suo complesso sodale, lo spazio. E, in un certo senso, il loro avvilupparsi l’uno nell’altro, in un amplesso inestricabile, non si sa quanto amichevole, imposto, forse, persino incestuoso.

Spazio e tempo; ad Aristotele servono come vaccino contro la malattia della contraddizione: piove e non piove; già, ma piove a Toronto, e non piove a Roma. Ecco che la contraddizione, di per sé immonda, è vinta e soccombe. Così Socrate è vivo, e Socrate è morto; già, è vivo prima del 399 a.C., è morto dopo. E di nuovo la belva furiosa è vinta.

Spazio e tempo come funzioni logiche, come custodi della legalità a priori del logos; senza la quale tutto l’essere diventa l’informe brodo di Cartesio. Spazio e tempo “non sunt res, sed phaenomena bene fundata”, dice Leibniz. Essi non sono cose, e dunque non ci sarebbero senza le cose: sono relazioni d’ordine tra le cose. Se esistono le cose, è già dato il prima e il poi, è già dato il sopra e il sotto, non occorre crearli ad hoc. E senza cose spazio e tempo si dissolvono nel nulla indistinto.

All’opposto, Newton considera spazio e tempo cose, anzi, le grandi coordinate, i grandi contenitori dell’essere. E, per Kant, l’omologarsi in essi diventa condizione imprescindibile per darsi al conoscere, essi diventano un guado necessario dove rassegnarsi a divenire fradici, perché non c’è alcun Caronte che sia disposto a traghettare il noumeno fino a noi.

Cugini, di più, gemelli, amanti forse; nell’affetto, o nella furia colpevole del peccato? E perché l’uno si lascia percorrere in tutte le direzioni, e il suo dispettoso compare non ci lascia che procedere in avanti? Perché la massa diventerebbe negativa, così ti direbbe Einstein; e in fondo così aveva già detto Fantappié. Ciò che non mi basta e non mi placa, pensò Ramon.

Il tempo. Il tempo perduto, ha cercato Giulia in Proust. Il tempo ritrovato. Ma che cosa è riemerso, cosa si è ritrovato? Che me ne faccio della fragranza di una madeleine, del suo aroma di zafferano, se lei sta là, in un passato intoccabile e remoto, e io sono qui, all’alba, a pensare?

Henri Bergson, ecco chi ci voleva!

Minuto, quasi pelato, le mani ossute e nervose, Bergson lo osservava in modo quasi timido, mentre il biancore dell’alba aveva ormai invaso ogni anfratto della stanza.

“Così, ci sono due tempi, maestro?”

Con il suo tipico tono delicato, il fare modesto, tuttavia Bergson non si esimeva dall’essere categorico:

“No, Ramon, c’è un solo tempo, quello vero. C’è il “tuo” tempo, il tuo vissuto, che è tuo e di nessun altro. Il resto è finzione”.

“Ma il mio orologio allora mi mente, maestro?”

“No, Ramon, il tuo orologio ti dice la verità. Ma un’altra verità, quello dello spazio che intercorre tra due tacche, quella che puoi condividere ‘esternalizzando’, per dovere sociale; ma il ‘tuo’ tempo è un’altra cosa”.

“Cosa intendi, Maestro?”

“Ti farò un esempio molto semplice, Ramon, e dopo ragioneremo meglio. Tu aspetti di sapere l’esito del tuo esame. Sbuffi, ti siedi, ti alzi, passeggi avanti e indietro. Soffri. Magari salta tutto, salta la borsa Erasmus, perdo Giulia. Quanto ‘tempo’ passa? In un’ora ci sono passioni, desideri, sofferenze, climi, odori, paure, assilli, a volte angosce. Tu pensi che tutto questo possa essere riportato nello scatto di una lancetta di una corda di un quarto di centimetro su un cerchio graduato? Quello è ‘spazio’, Ramon, non ‘tempo’. Non ha durata, è semplicemente una successione di stati. È il tempo della fisica, il tempo spazializzato che ti consente di socializzare, di parlare con altri. Non è tuo quel tempo”.

“E il mio tempo qual è, Maestro?”

“Quello vero, quello della ‘durata’. Il tempo fisico è una finzione senza durata. Se tutto l’universo si muovesse più lento, diciamo, il doppio più lento, non cambierebbe niente nei nostri orologi. Ma la tua sofferenza sarebbe doppia”.

“Ma non sono, dunque, le cinque del mattino?”

“Nel nostro io c’è successione senza esteriorità; per chi ‘sono le cinque’? Per te, Ramon, non vuole dire niente: non c’è ‘durata’; il tuo flusso di coscienza non è spazio, è vissuto, che non si lascia ridurre a successione di spazi consecutivi. Il tempo della fisica lo devi assumere solo nei rapporti sociali. Se non c’è nessuno che aspetta, non sono le cinque. Ci sei tu, con il tuo vissuto. E il tuo vissuto non si lascia misurare dalle lancette, o da qualche diavoleria digitale. Il senso comune ti obbliga a una visione deformata, che non ha durata ma solo concatenazione di istanti, o, se vuoi, di ‘spazi’, più o meno lunghi; ti obbliga, cioè, a proiettare il tempo sullo spazio, fino a definire una linea continua irreale; non ti accorgi che il tuo ‘io’ non si lascia ridurre a uno spazio e a un numero?”.

“Ma se io ora chiamassi al telefono Giulia, Maestro, mi direbbe: ‘ma sei matto, sono le cinque del mattino’. Dunque che siano le cinque è un dato oggettivo, non è una mia visione fantasmatica…”.

“Perché anche lei userebbe il ‘tempo della scienza’; quello senza continuità e senza durata, fatto di istanti concatenati e misurabili, utili solo per capirsi fra di noi, senza quel tempo psichico in cui le essenze non si succedono ma convivono. Quell’unico tempo per il quale posso dire ‘io’, ed emanciparmi dal fascio di percezioni di Hume”.

“Ma perché è sincronizzato, è lo stesso per tutti, se è finzione?”

“Non ho detto che è finzione, ho detto che è spazio. Tra Parigi e New York c’è sempre lo stesso spazio, no? Ma non è tempo, è una successione come i fotogrammi di un film su pellicola; senza movimento se non apparente. E tuttavia tu e Giulia vedreste lo stesso film…”.

“Ma allora, Maestro, del tempo vero, del tempo mio privato che me ne faccio?”.

“A parte vivere Ramon? A parte superare la materia per avere ‘memoria’? A parte travalicare l”intelligenza’ attraverso l”intuizione’ del complesso? Ti saluto, Ramon, non ho più ‘tempo’, il mio tempo finito…”.

“Quale, Maestro?”.

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Immagine in testata di CityGypsY11 / Flickr (licenza free to share)

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