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L’arcivernice: La felicità (dodicesima puntata)

Pubblicato il: 10/02/2012 16:18:13 -


Ramon si confronta, in questa puntata, con la domanda delle domande, quella che, prima o poi, tutti gli uomini si fanno: che cosa è la felicità? Quando una vita può dirsi felice? La felicità è una questione privata, o ha risvolti sociali? Questa volta, però, senza bisogno dell’arcivernice…
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Andare, vagare per le strade, godere dello schiaffo cromatico delle insegne, immaginare il calore dentro ai bar, dove pochi avventori schiamazzavano, nella scarso afflusso dell’ora di cena.

Ramon si sentiva felice. Curiosa situazione, questa, pensò. Felice perché? Ecco, qui stava il punto: spesso per la felicità non c’è un perché. Così come, simmetricamente, per la depressione non c’è un motivo preciso, ma a essa concorrono tanti piccoli particolari, alcuni persino subliminali.

L’aria fresca di un inverno assai mite entrava copiosa nei polmoni. Aria, pneuma, anima, spirito, soffio vitale, che cosa entrava dentro a ogni passo? La vita, forse. Un passante che gli veniva incontro lo urtò, di spalla. Possibile che ci sia gente che non ha coscienza di dove finisca il proprio corpo?

Ora il punto è: l’uomo è fatto per la felicità? O la felicità è piuttosto un punto limite, che si tocca senza mai possederlo del tutto, un punto improprio, un punto di fuga, un qualcosa che puoi solo accarezzare senza mai stringere?

“Eudaimonia”: essere guidati da un buon demone, da uno spirito giusto. Ecco l’aggancio con l’etica: felicità privata, tratta dalla propria soddisfazione, o benessere nel sentirsi opportunamente collocati nel mondo, per fare, per avere fatto quel che si deve?

Eudaimonia come disinteresse, come egoismo, come atarassia, o eudaimonia come impegno, come atteggiamento morale, come essere in pari con il mondo? Come soddisfacimento dei bisogni o come superamento degli stessi? Felicità come stato intellettuale, come “epoché” (astensione del giudizio)…

Gli Stoici, gli Epicurei, gli Scettici, quante felicità diverse. L’eudaimonia aristotelica, che si delinea come il giusto mezzo, la distanza dalle esagerazioni del poco e del troppo; o eudaimonia che potrebbe realizzarsi anche senza il mio tornaconto personale, come per Kant.

Il guaio è, pensò Ramon, proprio questo: l’uomo è un animale sociale, “zòon politikòn”, e così la questione si complica enormemente; la felicità non può racchiudersi tutta entro il proprio “particulare”. In un certo senso, Latouche è buon interprete di Epicuro. Per un altro verso, il demone non ci lascia mai sopiti, ce l’abbiamo dentro: è il pensiero. Non possiamo sospendere il pensiero, tutt’al più possiamo pensare di non pensare. E questo tarlo non ci lascia mai. Ecco allora che non possiamo accettare la felicità degli idioti, il benessere per inconsapevolezza conclamata.

Con questi confusi pensieri che si affastellavano gli uni sugli altri, Ramon ora procedeva a rilento, non trotterellando più lungo la strada. E gli venne in mente Geremia Bentham, e la sua idea del maggior utile per il maggior numero possibile di persone. Era forse questa la felicità ripensata in termini sociali? O la sua essenza era piuttosto nel diritto al cercarla, come sancisce la dichiarazione d’indipendenza degli Stati d’America?

E, senza bisogno dell’arcivernice, risentì dentro di sé il narrato di Erodoto, come se lo sentisse parlare: quando Creso, dopo avere mostrato a Solone tutte le sue sterminate ricchezze, ebbe a chiedergli se avesse mai incontrato qualcuno che certamente fosse il più felice di tutti. E Solone, senza indugiare, gli rispose che sì, che l’aveva incontrato:

“Tello di Atene, o re”.

E Creso, stupito:

“Perché mai pensi che Tello sia il più felice?”

“Per prima cosa Tello, mentre la sua città era prosperosa e fiorente, ebbe figli belli e buoni e a tutti loro vide nascere i figli e tutti gli sopravvissero; e inoltre ebbe una fine, mentre la vita era generosa con lui, per quanto ci sia consentito, ottima: avvenuta infatti una battaglia per gli Ateniesi contro i confinanti Eleusini, corso in aiuto e messi in fuga i nemici, morì in modo splendido, e gli Ateniesi lo seppellirono proprio là dove cadde, a spese dello Stato, e lo ricoprirono di tutti gli onori”.

Già. Il bilancio della felicità si può fare solo alla fine. Ramon concluse che doveva fare molte domande, e a molti maestri.

E chissà se l’arcivernice gli sarebbe bastata…

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Note bio:
Maurizio Matteuzzi, insegna Filosofia del linguaggio, Teoria e sistemi dell’Intelligenza Artificiale e Filosofia della Scienza presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna. Studioso poliedrico, ha rivolto la propria attenzione alla corrente logicista rappresentata da Leibniz e dagli esponenti della tradizione leibniziana, maturando un profondo interesse per gli autori della scuola di logica polacca (in particolare Lukasiewicz, Lesniewski e Tarski). Lo studio delle categorie semantiche e delle grammatiche categoriali rappresenta uno dei temi centrali della sua attività di ricerca. Tra le sue ultime pubblicazioni: L’occhio della mosca e il ponte di Brooklyn – Quali regole per gli oggetti del second’ordine? (in «La regola linguistica», Palermo, 2000), Why Artificial Intelligence is not a science (in Stefano Franchi and Güven Güzeldere, eds., Mechanical Bodies, Computational Minds. Artificial Intelligence from Automata to Cyborgs, M.I.T. Press, 2005). Ha svolto il ruolo di coordinatore di numerosi programmi di ricerca di importanza nazionale con le Università di Pisa, Salerno e Palermo. Fra il 1983 e il 1985 ha collaborato con la IBM e, a partire dal 1997, ha diretto diversi progetti di ricerca per conto della società FST (Fabbrica Servizi Telematici, un polo di ricerca avanzata controllato da BNL e Gruppo Moratti) riguardo alle tecniche di sicurezza in informatica, alla firma digitale e alla tecniche di crittografia.

Maurizio Matteuzzi

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