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L’arcivernice: “Lontanando morire a poco a poco” (nona puntata)

Pubblicato il: 20/01/2012 20:23:02 -


“Quest’uomo aveva parlato con il Re Sole, con il Papa, con Pietro il Grande”. Uno studente di filosofia riporta in vita i grandi pensatori del passato. In questa puntata è a colloquio con Leibniz.
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“Il punto è, vedi, Ramon, che il linguaggio fonetico non è composizionale. Tu prendi ‘casa’ e ‘caso’: ci sono ben tre parti coincidenti, ma non c’è alcuna relazione tra i due significati. Impossibile dunque applicare qui il ‘calculemus’”.

“Ma come altro si potrebbe fare, Maestro?”

“Prendi una qualsiasi ideografia; l’aritmetica, per esempio. Prendi ‘1765’ e ‘1785’. Tu potrai dire che ci sono le stesse migliaia, le stesse centinaia, le stesse unità, ma diverse sono le decine. Vedi che il segno si porta con sé le parti del significato?”

Il naso importante, la parrucca lunghissima, ma nera, non bianca, non da nobile, nera della classe borghese, seppur la più elevata. Quest’uomo aveva parlato con il Re Sole, con il Papa, con Pietro il Grande, Zar di tutte le Russie; aveva disputato alla pari con Newton, con Oldenburg, coi Bernoulli, aveva benedetto Gabriele Manfredi come genio matematico. Aveva inventato il calcolo infinitesimale, la calcolatrice meccanica, corretto i cartesiani nei fenomeni di movimento, attraverso l’introduzione dell’energia cinetica. E ora era lì, calmo e rigoroso, seppure impettito nel suo singolare abbigliamento da cortigiano di lusso. A Ramon tremavano i polsi: che cosa si poteva chiedere a questo ipertrofico dell’intelligenza? Ramon non se la sentiva davvero di addentrarsi nel cuore del pensiero leibniziano, delle formule, del disegno di rendere calcolabile la verità.

“Maestro, tu ti sei sempre considerato un grande autodidatta. La scuola è inadeguata? Come dovrebbe essere una scuola ben fatta?”

“Non abbiamo minimamente l’intenzione di abbattere la disciplina politica nelle professioni, che ha seguito piuttosto la convenienza dell’insegnamento che l’ordine naturale.”

“Dunque c’è un ordine fondativo e c’è un ordine didattico?”

“Assolutamente sì. Tu non potresti dire a un bambino che la metafisica, per cominciare dal punto più alto, tratta sia dell’ente, sia delle affezioni dell’ente: come però le affezioni dei corpi non sono corpi, così le affezioni dell’ente non sono enti. Ma questa sete deve formarsi da sé, dal di dentro, dopo che il bambino ha toccato con mano che le cose a un dipresso funzionano”.

“Ma allora va bene l’approccio attraverso il trivio e il quadrivio: prima prendi atto di qualcosa che funziona e poi assurgi ai massimi interrogativi.”

“Tu hai letto il ‘Discourse de la Méthode’, Ramon?”

“Non ancora, Maestro, ma ho intenzione di leggerlo quanto prima.”

“Il Cavaliere Descartes ha avuto l’educazione migliore possibile, da vero nobile: al collegio di La Flèche, dai Gesuiti.”

Ramon colse non dirò un astio, ma un certo malcelato sarcasmo in quel “da vero nobile”; Leibniz non era nato nobile…

“Leggi bene il primo capitolo: Cartesio si vanta di essere stato uno degli allievi migliori, pronto anzi per diventare, a sua volta, professore; eppure, conclude, non ha imparato nulla; o, meglio, non ha imparato la verità. Non dalle lettere, per le quali bisogna essere portati, e non si imparano; non dalla filosofia, perché i filosofi dicono tante cose bellissime, ma tutte diverse, mentre la verità è una sola; non dalle matematiche, se non il metodo, perché applicate a questioni che non interessano. Nemmeno, qui Cartesio fa una affermazione piuttosto compromettente per l’epoca, nemmeno dalle scienze occulte, che pure ammette di avere indagato… E, pure, quello era uno dei migliori collegi di Francia.”

Ramon era confuso, stranito. Mai una distruzione della scuola era stata più categorica. E a parlare erano, all’unisono, due dei più grandi pensatori di tutti i tempi.

“Che vuoi dire, Maestro? La scuola va buttata via forse?”
“No, vedi Ramon, il discorso è più complicato. Ci sono epoche storiche in cui la vera cultura si fa a scuola, ed epoche in cui il vero sapere è espunto dalle Accademie.”

“Cosa vuoi dire, Maestro?”

“Nelle epoche di grandi cambiamenti, di rivoluzioni scientifiche e culturali, la scuola rimane indietro, e i veri grandi pensatori vengono rifiutati. Prendi l’epoca mia. Cartesio non fu mai accademico, anche se per sua scelta (non aveva certo bisogno di lavorare, come ci spiega lui stesso); e Spinoza? Fu addirittura perseguitato come eretico di ogni religione. Prendi il sottoscritto, ‘si parva licet componere magnis’: la mia ‘Dissertatio de arte combinatoria’ non mi valse la cattedra a Lipsia, che mi fu negata. A Galileo l’Università di Bologna, ma proprio quella antica università, preferì il Guglielmini, che pure era idraulico valente. Anche se poi Galileo potè insegnare a Padova, non senza le difficoltà che ben sai…”

“Continua, Maestro”.

“La cultura vera, la scoperta della geometria analitica, l’ideazione del calcolo infinitesimale, cui pure io modestamente ebbi un ruolo, la fondazione newtoniana della fisica moderna, la rivoluzione astronomica, l’invenzione del microscopio in Olanda, e così via, insomma: tutto l’impianto della scienza moderna avvenne fuori, e non dentro l’Accademia. E questo è tipico di quando il sapere corre, e va troppo avanti, lasciando indietro, ‘perdendo per strada’ si direbbe, l’insegnamento ufficiale, quello della scolastica, della peggiore replicazione mnemonica di un Aristotele inautentico, che si continuava a compitare nelle aule.”

“Ma oggi, Maestro, saremo messi così, in mano ai burocrati, lontani dal vero sapere?”

Qui Ramon cercò di spiegare, citò i nomi e le riforme attuali, cercò di essere chiaro e sintetico, per quanto possibile.

“Caro ragazzo, non conosco costoro. Solo una battuta sugli indici bibliometrici come strumento di valutazione delle persone. Consentimi di autocitarmi: ‘scripsi innumera et de innumeris, sed edidi pauca et de paucis’. Probabilmente non mi prenderebbero nemmeno oggi.”

“Già. Ho letto che il fondo leibniziano di Hannover consta di circa 150.000 pagine. Com’è possibile che tu abbia scritto tanto… è incredibile!”

“Vedi Ramon, scrivere è un bisogno, come pensare. Nei lunghi mesi per raggiungere la Russia, ad esempio, tu non immagini quanto io abbia scritto.”

“Ma allora, Maestro, oggi stiamo sbagliando tutto?”

Già gli abiti da cortigiano e la nera, lunghissima parrucca, si presentavano ormai come la dissolvenza di certa tecnica cinematografica. Il naso importante era svanito, ma Ramon sperò di udire un’ultima battuta, che tuttavia non venne. Anche se a Ramon parve di udire, confusamente, un lontano, flebile “sì”…

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Note bio:
Maurizio Matteuzzi, insegna Filosofia del linguaggio, Teoria e sistemi dell’Intelligenza Artificiale e Filosofia della Scienza presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna. Studioso poliedrico, ha rivolto la propria attenzione alla corrente logicista rappresentata da Leibniz e dagli esponenti della tradizione leibniziana, maturando un profondo interesse per gli autori della scuola di logica polacca (in particolare Lukasiewicz, Lesniewski e Tarski). Lo studio delle categorie semantiche e delle grammatiche categoriali rappresenta uno dei temi centrali della sua attività di ricerca. Tra le sue ultime pubblicazioni: L’occhio della mosca e il ponte di Brooklyn – Quali regole per gli oggetti del second’ordine? (in «La regola linguistica», Palermo, 2000), Why Artificial Intelligence is not a science (in Stefano Franchi and Güven Güzeldere, eds., Mechanical Bodies, Computational Minds. Artificial Intelligence from Automata to Cyborgs, M.I.T. Press, 2005). Ha svolto il ruolo di coordinatore di numerosi programmi di ricerca di importanza nazionale con le Università di Pisa, Salerno e Palermo. Fra il 1983 e il 1985 ha collaborato con la IBM e, a partire dal 1997, ha diretto diversi progetti di ricerca per conto della società FST (Fabbrica Servizi Telematici, un polo di ricerca avanzata controllato da BNL e Gruppo Moratti) riguardo alle tecniche di sicurezza in informatica, alla firma digitale e alla tecniche di crittografia.

Maurizio Matteuzzi

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