L’arcivernice: Socrate e le leggi ad personam (seconda puntata)
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“Tu Socrate, pur potendo fuggire, non ti sottraesti alla condanna, seppure ti fosse stata inflitta ingiustamente... Ma non è forse giusto, quando i giudici sbagliano, trasgredire alle leggi, e sottrarsi a una non meritata condanna?”.
§ 3 – Ramon scopre i poteri dell’arcivernice.
Naturalmente il desiderio di aprire quel barattolo si fece subito strada prepotentemente. Ramon lo portò sul tavolo della cucina, e per quanto il legno del ripiano portasse chiaramente i segni delle sue mille battaglie, distese un giornale aperto a doppia pagina per ripararlo da eventuali schizzi; poi si procurò un coltello, ne trovò uno nel cassetto del tavolo, e con quello fece leva sul coperchio, che, ben conficcato, costituiva una chiusura ermetica. Con un po’ di sforzo la latta cedette, e il coperchio saltò via di colpo, ricadendo sul giornale, adagiandosi sulla parte interna, quella intrisa di liquido. Ramon, che aveva sperato in un colore sgargiante, da utilizzarsi per qualche suo ritocco, vide con grande delusione che il liquido era del tutto trasparente, una specie di copale. Subito dopo, afferrò il coperchio e lo girò in modo che non macchiasse il giornale. Qui il nostro lettore deve sapere che il giornale, uno dei quotidiani più diffusi, di cui non sono tuttavia autorizzato a fare il nome, era aperto proprio sull’inserto della cultura, e su un articolo che recensiva una riedizione del “Critone”. Sollevando il coperchio, Ramon vide la più classica delle icone di Socrate, scura per il liquido cosparsole sopra. Il giornale era vecchio, e già letto, poco importava in fondo. Ma presto avvenne qualcosa non facile da spiegare, se non al nostro lettore ipocrita, quello che ci ha seguito fin qui proprio per potere giocare con noi. Sta di fatto che le linee, dapprima piane, cominciarono a invadere la terza dimensione, e le masse solo intuite nel piano ad assumere consistenza plastica nello spazio euclideo. E a crescere, crescere, fino alla forma definitiva di Socrate, forse uomo o forse ectoplasma, ma vivo nello sguardo acuto e pacifico a un tempo. La prima reazione di Ramon fu naturalmente quella del terrore, e il suo passo indietro fu quasi un balzo. Ma quando Socrate gli chiese pacatamente “Perché fuggi?”, con una voce nitida e lenta, Ramon si riscosse; respirò molto profondamente, fin nel pieno della cassa toracica, non di gola, e si sentì pervaso di una certa tranquillità. Non aveva forse fatto duemila chilometri per studiare filosofia? E quale occasione più ghiotta, quale accadimento più grande avrebbe mai potuto occorrergli, se non quello che gli si offriva davanti, se pur sorretto da chissà quale diavoleria? E in fondo, cosa importava quale fosse la ragione, la spiegazione scientifica, ammesso che ce ne fosse una?
§ 4 – Oi nomoi
Da dove cominciare? Che chiedere, per sfruttare quella situazione irripetibile? Quel giornale aperto… “Il Critone”. Così, per associazione di idee:
“Tu Socrate, pur potendo fuggire, non ti sottraesti alla condanna, seppure ti fosse stata inflitta ingiustamente…”
“Certo, ragazzo, e credo di avere bene spiegato il perché. Anzi, meglio di me lo ha spiegato un mio discepolo, Aristocle dalle ampie spalle, persona senza dubbio promettente negli studi filosofici, e più volonteroso di me nello scrivere. Tanto che penso sia destinato a farsi un nome”.
“Ma non è forse giusto, quando i giudici sbagliano, trasgredire alle leggi, e sottrarsi a una non meritata condanna?”
“Il giudice non siede per sottomettere la giustizia al favore, ma per giudicare i casi che gli stanno dinanzi; e ha giurato, non di favorire chi gli sembri, ma di decidere secondo le leggi. Avrei dovuto io uccidere le leggi secondo le quali avevo vissuto oltre settant’anni, nelle quali ero stato educato, e con le quali avevo educato i miei figli?”
Ramon si rese conto che Socrate gli avrebbe replicato gli argomenti del “Critone”. Ora era ormai completamente a suo agio, e da persona di fervida fantasia qual era, decise di sfruttare al massimo l’occasione:
“Che ne pensi tu, Maestro, di un governante che modificasse le leggi per suo privato tornaconto?”
L’espressione di Socrate si fece corrucciata, le rughe della fronte apparvero più evidenti, e il suo sguardo si rabbuiò.
“Ma chi potrebbe mai concepire una malefatta del genere? Non lo ritengo plausibile, nemmeno sul piano puramente ipotetico. Significherebbe avere in dispregio tutti i propri simili, la stessa società in cui si vive, significherebbe uccidere le leggi. E, morte che fossero le leggi, significherebbe infine il ritorno allo stato ferino, all’aggirarsi di bestie pronte a scannarsi a vicenda”.
Ramon era da poco in Italia, come s’è detto, ma, innamorato delle cose italiane, era abbastanza informato, dagli articoli di El País e di El Mundo. Provò a sintetizzare alcuni casi: il lodo Alfano, il processo breve, il processo lungo. Provò a spiegare i compiti della figura dell’avvocato, mettendo in risalto le diversità rispetto al logografo dei tempi dei Greci; e, con non poche difficoltà provò a spiegare come un avvocato potesse essere al servizio di un imputato e al contempo partecipare a scrivere le leggi. Ecco, quest’ultimo punto costituì forse la fatidica goccia:
“Quello che tu mi dici non potrebbe accadere nemmeno in Tessaglia, dove la classe politica è la più corrotta. Non riesco a immaginare un futuro per una società che accetta cose come quelle che mi dici. Ma forse stai scherzando, e ti burli di me? E in questa terra, di cui favoleggi, non ci sono forse filosofi, e cittadini onesti, che possano porre fine a questo scempio?”
“Qualcuno vorrebbe, Maestro, ma vedi…”
Qui Ramon si rese conto che spiegare bene il porcellum, il monopolio dei media, il disfacimento sistematico dell’insegnamento al pensiero critico, e tutto il resto, era compito che travalicava di gran lunga le sue forze; e abbozzò un triste sorriso
“Lo sapevo che scherzavi. Una terra così non può esistere; non durerebbe dieci anni”.
La figura si smaterializzò lentamente, quasi che ogni molecola riprendesse la via della figura di carta, sul giornale ormai asciutto. Ramon si lasciò andare su una sedia, pensoso ed esausto. Dentro di sé si disse: “Forse potrebbe durare anche diciassette”.
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Note bio:
Maurizio Matteuzzi, insegna Filosofia del linguaggio, Teoria e sistemi dell’Intelligenza Artificiale e Filosofia della Scienza presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna. Studioso poliedrico, ha rivolto la propria attenzione alla corrente logicista rappresentata da Leibniz e dagli esponenti della tradizione leibniziana, maturando un profondo interesse per gli autori della scuola di logica polacca (in particolare Lukasiewicz, Lesniewski e Tarski). Lo studio delle categorie semantiche e delle grammatiche categoriali rappresenta uno dei temi centrali della sua attività di ricerca. Tra le sue ultime pubblicazioni: L’occhio della mosca e il ponte di Brooklyn – Quali regole per gli oggetti del second’ordine? (in «La regola linguistica», Palermo, 2000), Why Artificial Intelligence is not a science (in Stefano Franchi and Güven Güzeldere, eds., Mechanical Bodies, Computational Minds. Artificial Intelligence from Automata to Cyborgs, M.I.T. Press, 2005). Ha svolto il ruolo di coordinatore di numerosi programmi di ricerca di importanza nazionale con le Università di Pisa, Salerno e Palermo. Fra il 1983 e il 1985 ha collaborato con la IBM e, a partire dal 1997, ha diretto diversi progetti di ricerca per conto della società FST (Fabbrica Servizi Telematici, un polo di ricerca avanzata controllato da BNL e Gruppo Moratti) riguardo alle tecniche di sicurezza in informatica, alla firma digitale e alla tecniche di crittografia.
Maurizio Matteuzzi