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L’arcivernice: Conoscenza e felicità (trentottesima puntata)

Pubblicato il: 12/10/2012 12:04:05 -


“Ammesso che la vita abbia un senso, questo senso si sostanzia nella conoscenza o nella felicità? La domanda non è poi così peregrina”.
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Il problema è che è troppo ampio il divario tra la vita e l’ “antitipia”, o l’essere inanimato. Questo rende difficile credere che la vita si riduca ad essere semplicemente il conseguimento di una più elaborata organizzazione, un miglior adattamento derivante esclusivamente da condizioni ambientali. Così ragionava Ramon.

Il regno vegetale rappresenta un interessante gradino intermedio: i suoi elementi sono diversi da quelli della materia bruta, perché non si limitano a subire agenti esterni, ma nascono, crescono e muoiono, e le loro variazioni sono determinate, almeno in parte, dal di dentro, e non solo per intervento di agenti esterni. Ma questo regno intermedio è troppo poco perché ci si possa formare un’idea di continuità. Continuità che è molto più forte salendo ancora, data l’esistenza di forme intermedie tra il regno vegetale e quello animale.

L’alba colse Ramon in questi pensieri. Il giardino sembrava indistinto nel bianco, i rami che si vedevano dall’alta finestra parevano alla ricerca del loro colore, entità quasi fantasmatiche, poiché il loro tronco non si vedeva, in lotta tenace contro l’avvolgente onnicomprensivo chiarore. Nel sottofondo, il canto dei primi uccelli.

Che diversa vita era la loro, quella dei rami e quella dei passeri? Non poteva, non era logico che tutto si giocasse esclusivamente sul modo, sulla capacità di spostarsi. E, d’altra parte, i passeri, nel loro potersi dirigere verso qualche minuscola particella di cibo, avevano volontà, o estrinsecavano soltanto condizionamenti istintivi? Anche le radici dell’albero s’insinuano in modo irregolare nel terreno, formando disegni asimmetrici, a volte persino apparentemente irrazionali, da un punto di vista geometrico, per cercare il nutrimento, e pur tuttavia continuando a sostenere l’enorme peso della pianta. In mezzo tutta una congerie di casi intermedi, coralli e meduse, batteri, virus e ultravirus, protozoi…

Poi gli animali “superiori”. Il sistema nervoso centrale, da cui la soddisfazione o il dolore. Gli venne in mente Cartesio e la sua teoria del dolore come meccanismo di difesa, apparato informativo che mette in guardia da ciò che nuoce. Ma, nel migliore dei mondi possibili, era proprio necessario il dolore? Non bastava un avviso di natura diversa, meno invasivo, che so, un suono ad esempio? E il dolore estremo, quello del malato terminale che sente il suo corpo distruggersi dal di dentro, quello, in due parole, che il medico scherma con gli oppiacei, con la morfina, che ragione aveva di avvisarci, di che cosa? Dell’imminenza della morte? Avevamo già capito, grazie lo stesso. Irrazionalità del cancro: la cellula malata, nel suo aggredire il suo intorno, nei suoi metastatici viaggi di conquista e d’invasione, non sa che, distruggendo il suo ospite, finisce ineluttabilmente nel decretare la propria morte, e uccidere se stessa.

Ma poi l’animale superiore, che ha il sistema nervoso centrare, e ha quindi la predisposizione al dolore, mostra anche volontà. Il cane aggira un ostacolo per andare alla sua ciotola d’acqua: ha sete, vuole soddisfare un bisogno. A volte gioca. Questo fatto è ancor più misterioso, perché travalica la volontà di soddisfare un bisogno direttamente materiale, chimico. Perché il gatto gioca all’infinito con il gomitolo? È un’istanza pedagogica che si realizza, e che con l’età si attutisce fino a scomparire quasi del tutto nella vecchiaia.

E l’intelletto, poi. L’intelligenza si manifesta negli animali domestici, in certi modi. Fino persino ad arrivare a capire, in parte, il linguaggio umano. Si dirà: ma non in modo semantico, o simbolico. Chissà.

Secondo Leibniz la monade animale e quella umana condividono il “conatus”, l’ “appetitus”, il darsi un “terminus ad quem”; e tuttavia, mentre l’animale percepisce, e dunque sente, come noi, l’uomo appercepisce, cioè nel percepire sa di percepire, è conscio della sua percezione. Gli occhi di certi vitelli mentre vengono portati al macello suggeriscono tesi contrarie. E allora s’insinua, almeno come dubbio, il panteismo spinoziano: modi, modi, modi e solo modi, essendo l’unica sostanza il dio-mondo.

Come da questo intreccio di modi (o, se si preferisce, da questa scalata della vita verso vette sempre più complesse, dal virus ad Einstein) e quando, e perché, si è inserita la coscienza, si è potuti passare dal sub-simbolico al simbolico, si è dato un modo di guardare i modi, persino il proprio? E davvero questo accadimento traumatico si può inscrivere razionalmente in un processo di selezione naturale, o in una concomitanza di mutazioni casuali nell’interazione con l’ambiente? La coscienza e, più ancora, l’autocoscienza, sono davvero un vantaggio competitivo nella lotta per la sopravvivenza? Un tale una volta disse: mio nipote è un idiota, e vive male. Ma Ramon aveva sentito un altro dire: mio nipote è un idiota, ed è felice.

Ecco il punto. Ammesso che la vita abbia un senso, questo senso si sostanzia nella conoscenza o nella felicità? La domanda non è poi così peregrina.

****

“Per la nascita del mio bambino” di Sou Che (poeta cinese, 1036 – 1101 circa)

Ogni famiglia, quando nasce un bambino
lo vuole intelligente.
Io con l’intelligenza
ho rovinato tutta la mia vita.

Spero solo che si dimostri stupido e ignorante.
Coronerà così una vita placida
diventando ministro.

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