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L’arcivernice: Il filosofo del mistero (ventitreesima puntata)

Pubblicato il: 27/04/2012 16:16:35 -


“Maestro, qual è l’ora della filosofia, l’alba o il tramonto? Deve prevalere la previsione del fatto o la comprensione profonda dello stesso?”. Ramon riporta in vita il Filosofo di Porticello.
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La filosofia deve prevedere il futuro o interpretare le cose dopo che sono successe? E che importanza ha prevedere, chi darebbe retta ai filosofi? Così si chiedeva Ramon, mentre nella sua stanza si manifestavano le prime ombre della sera incipiente. Riadattato al vissuto personale, l’ora della filosofia è nello straniamento silenzioso dell’alba, o nel languore del tramonto? La filosofia si studia o si vive? Vivere senza filosofia, facendone a meno, è una filosofia, direbbe Engels; e dunque la scelta non è tra fare o non fare filosofia, ma tra fare filosofia consapevolmente o inconsapevolmente, cioè tra il fare “buona” o “cattiva” filosofia. Anche se essa, a dar retta a Hegel, è come la nottola di Minerva, arriva alla sera, a capire quanto è già successo. Ma forse no… Le grandi escatologie dei visionari…

Ramon non era in animo di scegliere un grande a cui fare domande. Su queste cose voleva prima farsi una propria idea. E tuttavia aveva voglia di arcivernice. Gli capitò sott’occhio l’immagine del Filosofo di Porticello. Ritrovato nei pressi dello stretto di Messina, e risalente al V secolo a.C. Perché no, magari in questo modo si scopre anche chi è…

“Maestro, qual è l’ora della filosofia, l’alba o il tramonto? Deve prevalere la previsione del fatto o la comprensione profonda dello stesso?”

“Dopo un tramonto c’è sempre un’alba, e dopo un’alba un tramonto. Che importanza ha dove sei tu?”

“Dunque alla fine i conti si pareggiano…”

“L’essere non ha bisogno che tu lo pensi per darsi”.

“Ma la mia interpretazione può influire sul mondo, e quindi sul suo modo di essere…”

“Questa è la grande illusione: sopra di te veglia il Fato, Tyche, figlio del Caos e della Notte”.

“Vuoi dire quindi che sei determinista, credi che tutto accada per necessità”.

“Sì e no; perché il Fato è cieco. Anche gli Dei devono obbedirgli, ma lui non vede quello che fa”.

“Quindi il Fato gioca a dadi col mondo?”

“Come tu giochi a dadi nella tua mente. Ma l’essere non risente delle uscite dei tuoi dadi”.

Ramon cercava di interpretare questo strano pensatore. Per un verso pareva avere tratti eraclitei, nell’allusione al ripetersi continuo e al susseguirsi delle cose; per un altro considerava l’essere fisso nei suoi ferrei legami come un eleate. Pareva determinista come Democrito, ma a uno stadio più ancestrale, mitologico quasi.

“Ma se io mi convinco di un’idea, poi agisco per farla prevalere, e ho successo, non ho cambiato forse il mondo?”

“La tua idea l’hai prodotta tu, nel senso che l’hai tratta dal nulla? Certamente no, ammetterai. Non ha senso trarre dal nulla. E allora i tuoi dadi sono truccati…”

“Io ho però una volontà”.

“O non hai piuttosto la capacità di operare la somma dei pro e dei contro?”

“Io ho degli ideali, una morale che voglio seguire, non calcolo un utile quando decido”.

“Certo, ma anche gli ideali, anche i precetti etici entrano nel computo; e così sempre di una somma si tratta”.

Il discorso virava sempre più al determinismo; ma in un modo quasi primordiale, in quanto non ne venivano esplicitati i primi principi, gli assiomi di partenza. Ramon decise di essere più drastico, per stanare l’interlocutore.

“Maestro, ma di cosa è fatto il mondo?”

“Di aria, acqua, terra e fuoco: delle radici, che si intersecano e si mischiano, mostrandosi in forme frammiste”.

Oddio, pensò Ramon, che sia Empedocle? In fondo è probabile che fosse un filosofo siciliano.

“E queste cose io le posso conoscere, e, come dire, misurare?”

“Certo che puoi: le radici sono fatte di monadi materiali, di replicazione indefinita dell’Uno, e formano così i numeri, che tu puoi calcolare, e che si danno in mille forme diverse tra di loro ma sempre uguali a se stesse”.

A Ramon ormai girava la testa; queste ultime erano affermazioni di scuola tipicamente pitagorica. D’altra parte la scuola pitagorica era fiorente nelle città ioniche della Calabria: Sibari, Crotone, Metaponto…

Era inutile cercare di indovinare. In quel pensatore c’era tutta la cultura della Magna Grecia, c’era un modo di pensare per un verso eclettico, per un altro estremamente connotato e deciso. Ramon si arrese:

“Maestro, ma chi sei veramente? Dimmi il tuo nome”.

Il filosofo di Porticello stava svanendo; il Fato, Tyche, non aveva voluto il disvelamento, ma il perdurare del mistero. Fino alla prossima alba o per sempre?

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Note bio:
Maurizio Matteuzzi, insegna Filosofia del linguaggio, Teoria e sistemi dell’Intelligenza Artificiale e Filosofia della Scienza presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna. Studioso poliedrico, ha rivolto la propria attenzione alla corrente logicista rappresentata da Leibniz e dagli esponenti della tradizione leibniziana, maturando un profondo interesse per gli autori della scuola di logica polacca (in particolare Lukasiewicz, Lesniewski e Tarski). Lo studio delle categorie semantiche e delle grammatiche categoriali rappresenta uno dei temi centrali della sua attività di ricerca. Tra le sue ultime pubblicazioni: L’occhio della mosca e il ponte di Brooklyn – Quali regole per gli oggetti del second’ordine? (in «La regola linguistica», Palermo, 2000), Why Artificial Intelligence is not a science (in Stefano Franchi and Güven Güzeldere, eds., Mechanical Bodies, Computational Minds. Artificial Intelligence from Automata to Cyborgs, M.I.T. Press, 2005). Ha svolto il ruolo di coordinatore di numerosi programmi di ricerca di importanza nazionale con le Università di Pisa, Salerno e Palermo. Fra il 1983 e il 1985 ha collaborato con la IBM e, a partire dal 1997, ha diretto diversi progetti di ricerca per conto della società FST (Fabbrica Servizi Telematici, un polo di ricerca avanzata controllato da BNL e Gruppo Moratti) riguardo alle tecniche di sicurezza in informatica, alla firma digitale e alla tecniche di crittografia.

Maurizio Matteuzzi

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