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L’arcivernice: Ramon e il Sommo Poeta (quarantesima puntata)

Pubblicato il: 31/10/2012 11:32:10 -


Dall’esperienza bolognese alla questione della lingua unica europea, passando per la "terribile" Gelmini: l’incontro di Ramon con Dante Alighieri.
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Ora Ramon si rendeva conto di avere fatto un azzardo troppo grande, quasi una follia. Per quanto fossero ormai alcuni mesi che era in Italia, e per quanto avesse anche precedentemente studiato la lingua e la letteratura italiane, ora era ben consapevole che aveva esagerato, e poteva essersi messo in un guaio. Ma la curiosità era il tratto prevalente del suo carattere, e non aveva saputo resistere: non aveva potuto passare oltre, di fronte a quell’immagine così carismatica, così drastica, così espressiva. E ora si trovava di fronte a colui che mostrò ciò che potea la lingua nostra, al padre della lingua italiana. Avrebbe retto a tanto?

Dante portava il classico copricapo della Firenze trecentesca, una specie di berretto da notte senza il fiocco apicale, che diventava floscio nella parte posteriore, e dal cui bordo raddoppiato su se stesso uscivano i paraorecchi invernali. Naturalmente il copricapo era rosso, come del resto le vesti. I lineamenti marcati, il naso aquilino e volitivo, lo fissava con gli occhi scuri e penetranti.

– Che vuoi tu da me, ispanico?
– Maestro… che dire, tutto e niente, sono emozionato. Come definiresti la tua vita?
– Col nome che più dura e più onora
io vissi in terra.

Come Tosco I’ fui nato e cresciuto
sovra ‘l bel fiume d’Arno alla gran villa.
L’Arno mi fe’, disfecemi Ravenna.

– Mi stai dando la riprova di una certa tesi, che ho sentito: che con le parole della tua Commedia si possa dire tutto… Ho sentito questa storia, di due fiorentini che stavano pranzando assieme. L’uno appunto affermò questa tesi; l’altro, incredulo, lo sfidò: “prova a dire con le parole di Dante quanto io sto facendo ora, e cioè che mangio una costata di maiale”. E il primo, pronto: “e ‘fiorentino spirito bizzarro / in sé medesmo si volvea co’ denti”.

Dante accennò un leggero sorriso, poco più di una lieve increspatura delle labbra.

– Sono tante le domande che ti vorrei fare, mi si accavallano nella mente. Ad esempio, tu hai studiato a Bologna; perché hai lasciato la tua Firenze per Bologna?
– A que’ tempi a Florentia c’erano artisti e cenacoli, c’era fervore culturale. Ma non c’era ancora un’Università. A que’ tempi, Raimondo, uno che fosse attratto dalla professione del cerusico, o fosse curioso delle scienze naturali, poteva andare a Salerno. Se invece era attratto dalle arti liberali, dalla studio della legge, dalle materie del Trivio e del Quadrivio, la scelta era molto ristretta. Bologna o Parigi, altro non v’era. Fu un periodo forse fra i più felici della mia vita, della mia giovinezza. Spensierato infine, a dispetto delle faide che certo nemmeno là mancavano. E quando scrissi di Montecchi e Cappelletti, di Monaldi e Filippeschi, avrei potuto altrettanto bene scrivere di Geremei e Lambertazzi. Sì che girar di notte, sotto quei portici sostenuti da dura quercia squadrata, alta e nera, incuteva un certo timore anche al giovane disinvolto qual io era. Pur anco, v’eran colà femmine per cui conveniva fronteggiar fatica e rischio. E proprio per questo fu d’uopo ch’io ratto fuggissi una certa fiata. Ma ricordo volentieri molte cose, come lo spiazzo delle torri, e ‘l senso che facea la Carisenda, mettendosi dalla parte dove già allora pendeva. Così la ripensai quando immaginai che il gigante Anteo si chinasse sopra di me:

Qual pare a riguardar la Carisenda
sotto ‘l chinato, quando un nuvol vada
sovr’essa sì, che ella incontro penda;
tal parve Anteo a me…

Ramon cominciava a prendere coraggio; pensava che a sua volta la sua lingua era fondata su una letteratura di immenso valore, gli tornavano in mente Cervantes, e Lope de Vega, e Calderon, e Lorca, e infiniti altri. Le domande gli vennero così più naturali:

– Maestro, tu che hai forgiato una lingua, e una delle più belle del mondo, che ne pensi tu dell’enorme problema linguistico che ha l’Europa, con ben venticinque idiomi? Con l’enorme fardello sulle spalle di dover esprimere ogni provvedimento, ogni direttiva, ogni risoluzione in ciascuna di esse? Ho sentito dire che vi sono ottomila persone completamente adibite a questo scopo di un ininterrotto tradurre…
– Trovo che così una vera unione d’Europa non si farà mai. Che questo sia follia. E mi ricorda l’Italia dei miei tempi,

e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.

– Tu allora auspicheresti che la questione sia risolta come fu risolta per l’Italia, facendo prevalere una sola lingua che unificasse i dialetti? E dovremmo tutti abbandonare la nostra lingua madre, e magari parlare in Inglese?
– Una unificazione tra lingue così diverse è impossibile. Diverse e, per di più, radicate nei secoli e nell’uso, e negli animi e nelle menti, e ricche di letterature sublimi. Ma io penso che le lingue che hanno una vera letteratura, che foggia l’identità, la tradizione, la cultura del continente, non siano poi tante. Oltre alla mia, ho in mente l’Ispanico, e ‘l Franco, e l’Alemanno, e infine sì, anche l’Anglo, naturalmente. Basti pensare al sommo Calcearius, che fondò quella lingua (non senza viaggiar per l’Italia e attingere dalla nostra letteratura), all’immenso Crollalanza, o Sachespeario se più ti piace, a Milton, all’ideazione del genere “romanzo”, nel Settecento, ai grandi romantici del secolo successivo… Ma troppo sarebbe quanto si perde abbandonando le altre che ho detto. Il Nuovo Continente dovrebbe avere quelle lingue, e quelle letterature, e quelle tradizioni che ho detto. Il modello funzionante ce l’avete sotto gli occhi: è la Confoederatio Helvetica. Ne verrebbe qualcosa di un po’ più complesso, e un po’ più grande, ma che funzionerebbe senza perdere la propria storia. E dovrebbe nascere dai popoli, non dai loro governi corrotti ed incapaci. Cioè dal basso, e non dall’alto. E poi, come fidarsi di gente che chiama orsi i cavalli, e chiama caldo il freddo?

Ramon ci mise un po’ a cogliere l’ultimo gioco di parole, che gli suonò strano entro un discorso di tono così elevato, e in bocca a un personaggio così austero; ma evidentemente anche Dante sapeva scherzare, giocare con le parole doveva essere facile per lui…

– Maestro, allora tu pensi che sia sbagliato costringere i nostri atenei a tenere lezioni in Inglese, come sta avvenendo, ad esempio, al Politecnico di Milano?
– Ma a chi poté mai venire idea sì tanto bizzarra?
– Ma, vedi, c’è tutta una linea di pensiero, un’idea dell’Università come industria, o comunque preparazione ad essa; a chi si deve l’idea? Ma, se dovessi fare un nome, direi a un nostro recente ministro dell’istruzione, di nome Gelmini.

Qual è colui che un grande inganno ascolta che li sia fatto, e poi se ne rammarca, fecesi l’Alighier nell’ira accolta.

La figura parve irrigidirsi, il viso, volitivo e stagliato, pareva ora terreo, l’espressione stizzita, il livore evidente. Dante non si dissolse lentamente, com’era sempre accaduto, ma scomparve di botto, a Ramon parve quasi di udire il tipico rumore di una porta sbattuta con violenza.

Temp’era dell’inizio della sera; Ramon sentiva il bisogno di una boccata d’aria fredda. E uscì in giardino a riveder le stelle…

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