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L’arcivernice: Ramon e le ombre (cinquantanovesima puntata)

Pubblicato il: 14/06/2013 10:45:06 -


“Se capisco bene, Maestro, gli infiniti mondi materiali sono esplicazione di Dio, in un certo senso sono tutt'uno con esso. Ma allora perché guardare le ombre, e non rivolgersi direttamente verso l'alto, verso la luce, verso Dio?”. Ramon riporta in vita Giordano Bruno.
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Stava calando lentamente la luce del giorno, e la stanza si stava immergendo in quella fredda penombra in cui le forme sono ancora ben distinguibili, ma le tinte sfumano tendendo a una sempre maggiore uniformità, quasi aspirassero alla fusione perfetta. Era quel momento, insomma, in cui uno si chiede se sia già il caso di accendere la luce artificiale.
Ramon rimandava quella decisione, deciso ad assaporare quel progressivo lento volgersi del giorno nella notte.
E notò che, malgrado la poca luce, gli oggetti sul tavolo facevano ancora un’ombra, lieve e allungata. Le cose materiali hanno un’ombra, pensò Ramon, quelle immateriali no.
Ma un ricordo inaspettatamente riaffiorò nella sua mente, o forse, direbbe qualcuno, in un angolo del suo cervello. De umbris idearum. Dove l’aveva pur letto… Google… Ecco, Giordano Bruno, ma certo. La mnemotecnica, l’arte del ricordare. I cerchi concentrici, simili a quelli di Lullo, a combinare segni, un’anticipazione dell’ars combinatoria di Leibniz.
Difficile, Bruno, arduo capire il suo stile immaginifico, le sue metafore, i suoi voli pindarici; ma valeva la pena provare.

Ramon trovò subito varie immagini; ma così diverse… Quale far rivivere, il bellissimo giovanetto, esile e minuto, con i baffetti appena accennati e l’abbondante capigliatura, finemente e un po’ vezzosamente curata, o l’austero pensatore cinquantenne, che rifiuta l’abiura? Quello che, incutendo timore ai suoi stessi carnefici, affronta la prova del rogo, con la lingua bloccata da una morsa perché non possa parlare, perché non possa ripetere il suo celebre anatema: “Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accidia” (“Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla”), come disse al cardinal Bellarmino e agli altri quando lo condannarono ad essere arso vivo?
Ma ecco che una terza immagine si porse a risolvere il problema: Bruno maturo, lo sguardo severo, vestito da frate, in quel saio che aveva ripudiato e ripreso più volte.

“Maestro, davvero anche le idee hanno un’ombra?”.

“Ramon, cosa vedeva l’uomo sul fondo della caverna di Platone? Non vedeva forse l’ombra delle idee?”.

“Ma come può un’idea fare ombra?”.

“Partiamo dalla natura: infinita, e infinitamente complessa. Materia, buio. Dall’altra parte la luce infinita, le idee nella loro perfezione, Dio. L’uomo sta in mezzo a questi due poli, e riceve ombre, le ombre delle cose, da una parte, e quelle delle idee, dall’altra. E solo attraverso le ombre intellettuali, difettive ma simili alle idee, l’uomo può riscoprire la natura come effetto del divino, e, in definitiva, giungere alla verità”.

“Se capisco bene, Maestro, gli infiniti mondi materiali sono esplicazione di Dio, in un certo senso sono tutt’uno con esso. Ma allora perché guardare le ombre, e non rivolgersi direttamente verso l’alto, verso la luce, verso Dio?”.

“Gli antichi già sapevano, Ramon, come si osserva un’eclissi senza farsi accecare: si guarda il riflesso in una bacinella d’acqua. Per speculum in aenigmate, come scrive Paolo ai Corinzi. Le ombre, quelle buone, quelle intellettuali, non mentono, non tradiscono; solo, ti rivelano le vestigia, i contorni, senza accecarti”.

“Ma non ci sono ombre false?”.

“No Ramon. Come ho scritto, tandem umbrarum cum ideis similitudo tum enim umbrae, tum et ideae non sunt contrariae contrariorum. Con la stessa idea conosci il vero e il falso, e così con la stessa sua ombra. Lo stesso per il bene e il male, il perfetto e l’imperfetto. L’idea di bene ti fa conoscere il male come deficienza di bene, così come l’idea di reale quella dell’irreale. Non esistono dunque idee irreali, o ombre irreali. Spetta a noi cogliere il positivo, e distinguerlo dalla sua assenza. Malum enim imperfectum, et turpe proprias quibus cognoscantur non habent ideas: quia tamen cognosci dicuntur et non ignorari, et quidquid cognoscitur intelligibiliter per ideas cognoscitur: in aliena specie cognoscuntur, non in propria quae nulla est”.

Ramon aveva messo in conto una conversazione difficile, ma non credeva tanto. Bruno passava dal latino all’italiano e poi di nuovo al latino senza alcuna pausa, e senza dargli il tempo di tradurre; si limitava a capire il senso complessivo, a intuito. Glielo disse. E Bruno:

“Ecco, vedi ragazzo, tu stai conoscendo non le miei i dee, ma le loro ombre…”.

Bruno, martire della conoscenza, copernicano convinto prima di Galileo, sostenitore dell’infinito in atto, dell’infinità dei mondi, anticipatore della relatività: non c’è un centro nel suo infinito. Bruno, arso vivo nella piazza di Roma Campo de’ fiori, l’unica piazza antica della capitale in cui non compaia una chiesa. Chissà se avrebbe gridato, sentendo quell’immenso dolore. Non lo sapremo mai, poiché gli avevano messo il morso alla bocca.
E così a Ramon piacque pensare che avrebbe avuto la forza di lanciare di nuovo la sua atroce e perpetua condanna:

forse tremate più voi nel farmi questo, che io nel subirlo!

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Immagine in testata di Marco Cinque / Flickr (licenza free to share)

Maurizio Matteuzzi

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