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L’arcivernice: Tutto l’orrore di una mela. Giulia incontra Lacan (quarantatreesima puntata)

Pubblicato il: 06/12/2012 16:08:11 -


“Non puoi misurare le percentuali per calcolare in quale fascia di affettività incasellare la parola. Oggi l'area sperimentale fornisce approssimazioni arbitrarie che vi illudete di dare come risultati scientifici. Ma la parola detta è come l'istantanea di un uccello in volo: nulla dice da dove venga, e dove potrà andare l'istante dopo”.
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“Le informazioni che ci invia il corpo, che male c’è se sono soggettive?” dico a Ramon cercando il tono flautato. Però Ramon diventa malmostoso, malgrado il tono angelico che avevo sfoderato.

A volte con lui proprio non riesco a trovarmi nella giusta “allocation”. Lui, e la sua filosofia… Con la testa formata in quegli studi, forse è innamorato più dell’idea di me, che di me veramente.

L’aria ormai, a dicembre, mi schiaffeggia la faccia, mi localizza, m’impone una sua direzione. Così, preda del vento che mi orienta, allungo il passo tanto da allontanarmi da Ramon, dal suo pensiero dispotico. Perché se poi non me la posso mangiare, che me ne faccio dell’idea di mela? So in cuor mio che potrei produrre un esempio meno banale, ma in sunto: se ammettessi di voler cercare la verità proprio nelle informazioni che registra il mio corpo, Ramon e i suoi amici mi metterebbero direttamente in un blocco di cemento, murata viva.

Certo che David Foster Wallace, quando ha deciso di scrivere un romanzo sulle persone più noiose del mondo, anziché i revisori contabili poteva scegliere tranquillamente i filosofi.

Frequentare le idee, non le persone. È come camminare da soli al cimitero.

Già che Ramon non ride quasi mai, e “chi non ride mai”, come affermò Chopin, “non è davvero una persona seria”.

Sono soddisfazioni illusorie, le sue: mai un’idea di mela ha placato la fame o la sete, in assenza di un effettivo assorbimento. Ma si sa che io cerco sempre punti fermi, certezze che non svolano. Ormai bisogna ammetterlo, nella parentesi di dialogo tra Ramon e me c’è sempre stato solo un piccolo legame, un contatto precario, una “Sorge” di Heidegger.

Mentre ascolto soltanto lo scorrere del vento, nella mia camminata ogni passo è un modo per schiarirmi i pensieri. In quegli stradellini che sembrano immaginati da Kafka, considero che forse la mia meta, per qualche istinto misterioso, è proprio la casa di Ramon, la stanza dove posso trovare l’Arcivernice. Tanto lui ha il suo esame sul “Concetto di Archetipo in senso platonico”, e non potrà in alcun modo disturbarmi. Sarà là immerso nell’iperuranio della filosofia, a dire che la verità va cercata non nelle informazioni registrate dal corpo ma nel mondo delle idee… Io me li vedo tutti, quei cercatori di verità, camminare ingobbiti e circospetti con la lanterna in mano al cimitero. Lasciano dietro di sé ombre scure. Ma, mi chiedo, arriveranno mai un giorno a dire anche loro, parafrasando Antistene: “Oh Ramon, vedo la mela, non vedo la melità”?

Oltrepassando il famoso portone, rasento il muro salutando la donna della guardiola.

“Ormai so molto bene quello che accade con l’Arcivernice – sussurro tra me con una risatina -non verrà fuori il fantasma del castello”. Ormai tutto è previsto, perciò in quanto previsto non mi spaventa.
È solo l’imprevedibile che dà angoscia.

Cerco dunque con foga nelle pile di libri accatastati sul tavolo il gigantesco volume che porta in copertina la faccia di Lacan. Ma come faccio a parlargli, se poi non credo nella sua esistenza? Una contraddizione in termini. Parlerò forse con la “lacanità”? Eppure ecco, lui a tratti lentamente nell’aria si sta componendo. È stato come unire i puntini numerati per scoprire che cosa apparirà. È qui, e traccia perfino l’ombra del suo profilo sulla parete.

Mentre io colgo quell’impossibilità, lui mi sta già guardando intensamente; forse avevo pensato ad alta voce? Perché Lacan mi rivolge un sorriso compiacente, come si fa coi bambini e con i matti. Ho capito qualcosa, oppure anch’io non ho capito veramente la sua teoria? Allora azzardo cauta:

“Professore, se usiamo tutti la scoperta freudiana per cui la base della cura è la parola rivolta all’analista…”.

Qui non so più se proseguire nell’ovvietà del primo pensiero che, preda dell’ansia, mi è venuto in mente. Così una lunga pausa segue il suono sommesso della mia voce, tanto che faccio in tempo a credere di essere in balia di una silenziosa visione, e che nessuno sia stato incarnato, questa volta, da quella vernice.

Lui però m’incoraggia bonario: “L’entrare in terapia sollecita la verbalizzazione”.

Allora penso alla struttura del linguaggio, e che se Ramon fosse qui potrei dirgli: ecco vedi, il linguaggio c’è ma per esserci, perché io lo comprenda, emerge come suono, non può fermarsi all’idea. Lacan approfitta del “blocage” per inserirsi, con il tono paziente di quando si parla ai bambini: “Il linguaggio con cui il soggetto comunica è fatto di parole e di silenzi”. Quindi la figura autorevole sembra impormi, con lo sguardo severo, di continuare.

Adesso sono convinta, l’immagine ha una vita sua che sembra organica, non faccio certo questioni biologiche, non ho alcuna autorità per farne. Allora mi rivolgo intimidita, come un’ipotetica allieva, alla figura disincantata dell’uomo: “Dunque il paziente esprime a parole la sua sofferenza – riprendo, cercando il tono fermo della voce – descrive i sintomi, rievoca ricordi. Già Freud, in una fase della sua dottrina, ha collegato il successo della cura alla capacità di scovare e mettere sotto un potente riflettore il ricordo dell’evento scatenante. Ma bisogna rivivere l’affetto collegato, le rappresentazioni patogene che nel ricordo ti assalgono, la quantità di emozione. E tener conto delle manifestazioni somatiche come il rossore, l’agitazione motoria…”.

Perché gli parlo con questa apprensione, se so che in fondo ha un’anima di carta, cosa vorrei sentirgli dire? E lui, puntualmente, così continua:

“Tu dunque, Giulia, non perdi mai di vista l’orientamento biologico, in una sperimentazione analitica delle sensazioni corporee: come l’apparato controlla fisiologicamente il livello di affetto. Una quantità fisica piuttosto che una qualità psichica” e ancora mi rivolge quel suo sorriso incoraggiante, un po’ severo e un po’ dolce. Quasi a chiedere scusa, rispondo sottovoce: “Per me il sapere passa attraverso la matematizzazione”.

“Sì – dice lui – è una tua ossessione. L’affetto come somma di emozioni? Un tentativo di riordino di immagini di per sé disordinate. È come voler intervenire sulle formule alchemiche. Ma qui non è un esame del sangue che misura quanti globuli rossi o bianchi, quanti zuccheri ci siano nel corpo. Qui non puoi misurare le percentuali per calcolare in quale fascia di affettività incasellare la parola. Oggi l’area sperimentale fornisce approssimazioni arbitrarie che vi illudete di dare come risultati scientifici. Ma la parola detta è come l’istantanea di un uccello in volo: nulla dice da dove venga, e dove potrà andare l’istante dopo”.

Così raccolgo tutto il mio coraggio: “Se la parola, come già era per Freud, non è quella pronunciata effettivamente dal paziente. Se la parola, il desiderio inespresso, rimane ‘dietro’ ciò che il paziente dice, nasce forse da lì una certa sfiducia nell’essere parlante, nel malato psichiatrico: è così che oggi tanti terapisti sospettosi continuano a mietere vittime.

“Compito dell’analista è districare la stratificazione composita del discorso del paziente. E ciò deve farsi in modo sobrio. Bisogna restare distaccati. E tutto ciò ha forse l’aria di rimanere nel freddo rigore del ‘vero’/’falso’. Invece la psiche era stata descritta da noi come poesia, poi diventata prosa, ma adesso siete voi che la trattate come un bilancio aziendale!”.

“La rimozione, la censura, la difesa…” provo io a continuare. “Sì – lui m’interrompe – le ormai ben note forze che si oppongono alla comunicazione. Distorsioni patologiche… – e poi, aumentando il volume della voce – e sono tutte forze che il mio processo psicoanalitico si incaricherebbe di smantellare!”.

“Con gli strumenti dello strutturalismo e la linguistica, col suo processo di analisi – azzardo sempre più debolmente – per ogni riferimento ai significati affettivi naturali emerge la verità dell’enunciato in rapporto a un giudizio ‘vero’/’falso’. Ma così, col paradigma semiotico, si esclude forse il parametro ‘buono’/’cattivo’? Il giudizio affettivo? Il mondo delle rappresentazioni affettive anche più elementari?”.

Con un effetto straniante avverto la parvenza di una risposta che non lascia nell’aria nessuna traccia acustica: “È dunque vero che sono incomprensibile!” e in quello stesso momento, con il mio più desolato sconcerto, tutta la sua autorevolezza, tutta l’istituzionalità che lui emanava stanno già contraendosi in un punto. Come per un’improvvisa scarica elettrica, lo scoccare di un cortocircuito, con un leggero sfrigolio lui mi scompare di fronte.

Eppure alle mie spalle si era come prodotto il colpo stizzito di una porta sbattuta con forza.
Chissà se adesso andrà dalla persona giusta.

Allora sottovoce mi ripeto una frase di lui che ho letto in questi giorni: “I miei ‘Scritti’ la gente non li capisce, ne è toccata”.

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Giulia Jaculli

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