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L’arcivernice: L’innominato (sessantaduesima puntata)

Pubblicato il: 09/08/2013 11:52:00 -


Con una raffinatezza degli effetti degna della migliore simulazione tecnologica, lo Sconosciuto mi compare davanti all'improvviso. Una specie di clone, perfetto fin nei pori della pelle, perfino nei follicoli piliferi, e anche in grado di compiere tutte le azioni umane. Dunque, mentre ero immersa nei miei pensieri, Ramon l'ha generato, con la vernice e il pennello. Ma non mi ha detto chi è!
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“C’è un’atmosfera gotica in certa vostra nuova filosofia”, dico a Ramon perplessa, interrompendo il ripasso ad alta voce del suo prossimo esame, “a volte la penombra di finestre oscurate”. Continuo: “E c’è ‘il rivo strozzato che gorgoglia’, e poi c’è ‘l’incartocciarsi della foglia’, ‘la statua nella sonnolenza del meriggio’. E c’è anche ‘il cavallo stramazzato’ ”. Poi: “Eugenio Montale”, declamo scandendo lentamente. Gli strizzo l’occhio e sorrido, ma proseguo: “E certe piazze vuote di De Chirico. Oppure le stazioni di Binswanger, dove i treni non passano più”.

C’è tutto, per cruentarsi la vita dentro una depressione, medito poi tra me, mentre Ramon, adesso silenzioso, sfoggia però il suo miglior piglio derisorio, e si finge concentrato a sfogliarsi il suo ponderoso manualone.

“E si sa, l’ombra crea incertezza: e l’incertezza è potere”. Continuo ad alta voce, pronta a tutto. “Ed è un processo lento, carsico, insidioso”.

Le astruserie da filosofo, penso poi nel silenzio ostinato di Ramon. Se se ne fossero accorti i redattori del nuovo tanto atteso DSM V, si sarebbero attrezzati per tradurre anche la filosofia in una forma di patologia piuttosto chiara: sguardo che svuota la vita, e gelido senso che tutto dilegua lungo le strade impolverate e perse in lontananza, su sfondi silenziosi e continui di qualche assenza. Certo è un nuovo disturbo di personalità.

“Ma Freud”, chioso ancora, impavida, “affermava che una rosa non è meno bella per il solo fatto che il suo destino è sfiorire!”

E continuo a pensare tra me: certo, di questi tempi vogliamo tutti sentirci connessi, speciali, attraverso il lavoro e i Social network e LinkedIn, e chiediamo a tutti di metterci un ‘like’, di partecipare alle nostre realizzazioni con qualsiasi magia digitale. Per certa filosofia, invece, dovremmo argomentare in un rattrappimento di energie, pensieri deboli dentro una non-comunicazione buia e omertosa. Così si attacca il bisogno umano attuale inevitabile: di sentirsi speciali per gli altri.

Ma cos’è giusto? E la patologia, se c’è, dove si colloca? In quei sentieri bui e tortuosi in un sentire sfuggente, nebuloso, e nei fantasmi che qua e là vi galleggiano, oppure negli spazi aperti troppo esposti di luci a video accecanti, effetti ottici falsi, artificiali, e luci stroboscopiche, fari laser e Led, e spara-bolle, e folli palle a specchi nel realismo magico, immateriale dei pixel?

La negazione del reale. C’è una legge del funzionamento mentale, in psicoanalisi: quello che si vuole cancellare dalla memoria, comunque sia ritorna nella realtà, e spesso ha la forma dell’incubo.

Già, se il confine fra Io il nostro corpo, e il Mondo esterno reale si perde, come sostiene Bion c’è la patologia. Quando appunto il confine tra l’interno e l’esterno non permette lo scambio e non consente l’attraversamento. C’è la patologia quando il confine è murato e viene meno l’ossigeno dell’altro.

Filosofese: quel linguaggio filosofico-criptico già caro agli aruspici. Sembra che i filosofi aruspici fossero fieri di certe loro formule fumose, ‘fatte apposta’ dicevano ‘per ingannare i creduli’. Così certa attuale filosofia: sembra faccia di tutto per rendere le sue stesse ragioni incomprensibili; zone d’ombra ostinate, dove poi di sicuro ogni comunicazione s’inceppa.

Ma a fronte di dirette, esuberanti simulazioni tecnologiche, falsificazioni della realtà e visual effects, forse è la filosofia, oggi, a sembrare malata: debole, ingobbita, lo sguardo perso nel vuoto e biascicanti parole a cui non si sa come rispondere. Ed è cortocircuito. Che cosa ha indotto lo scatenamento, il declenchement lacaniano dell’una o dell’altra di queste deliranti sostituzioni di qualche cosa che è venuto a mancare? Certi panorami d’interni bui e di finestre accostate perché si azzeri il sole, la luce. Quella ricerca della solitudine, per cui il significato prognostico è sfavorevole, poiché la vita dev’essere limpida relazione. Oppure quei video-salotti accecanti, piuttosto, di forzato pensiero positivo, di ottimismo naïf: qui dove tutto è splendido, in vista e luminoso, tutti si scambiano email e numeri di telefono, e ti invitano allegri alla conversazione. Ci confrontiamo tra noi, e c’è risposta su tutto; i commenti, le frasi intelligenti, tutti possono essere ricchi e felici, in un flash che ti abbaglia. Teatro dell’assurdo comunque.

In tutti e due i casi è rifiuto della realtà, e sostituzione della realtà con qualcosa che comunque non esiste. Nietzsche, con la sua meta vitale del Superuomo, lui con la sua ‘volontà di potenza’, aveva colto l’insorgere di certe debolezze fisiologiche, l’essere prede ormai del nichilismo, l’andare alla deriva, di questa società.

Il passato minaccia, il nuovo fa paura. È in tutti i casi una vita in trincea. Forse è l’unica scelta, la negazione delirante della realtà per questi uomini, tanto poco potenti così che Deleuze aveva definito la loro vita ‘impersonale’, né di persona né di cosa.

Quale sarà il bisogno fondamentale, cosa dovrebbe accadere di magico se forse siamo, alla fine, tutti anonimi, soli. Qui non capisco il punto.

Con una raffinatezza degli effetti degna della migliore simulazione tecnologica, lo Sconosciuto mi compare davanti all’improvviso. Una specie di clone, perfetto fin nei pori della pelle, perfino nei follicoli piliferi, e anche in grado di compiere tutte le azioni umane. Dunque, mentre ero immersa nei miei pensieri, Ramon l’ha generato, con la vernice e il pennello. Ma non mi ha detto chi è!

“Il linguaggio universale, certo, è un’utopia”, parte subito Lui con una voce sonora, senza che ancora nessuno lo abbia interpellato, “oggi però, sono venute meno ovunque le certezze dell’uomo. Nessuno regge più il peso delle responsabilità. Così vi abbandonate, tutti solitari e passivi, accettate il destino contro cui pensate di non potere più nulla. Disponete di un cervello preistorico e dovete vivere in un’era post-moderna: potete solamente consegnarvi alla rassegnazione”. Il suo parlare è secco, il suo sorriso è un po’ dolce e un po’ severo.

“L’Oltreuomo di Vattimo? Di questo sta parlando, Professore?” Già, Professore, come altro potrei nominarlo…

Lui glissa sulla domanda. “È il venir meno delle certezze salde dell’uomo, la progressiva scomparsa delle verità stabili, delle totalità. Ma dovete imparare a conviverci senza ansie e nevrosi, guariti proprio attraverso il dolore dei fallimenti e la fatica delle realizzazioni, forse adattati all’inesistenza di scopi nella vita”.

“E questo vale, Professore, sia per l’effetto di solitaria esaltazione dei scintillanti link multimediali, sia per gli occhi pensosi e malinconici del filosofo che si ostina ancora a imparare soffrendo, e cerca ancora la prevedibilità, il télos della vita?”

Ma quelle guance scavate e quell’eloquio solenne, lo sguardo distaccato, il viso bello e carico di attrattiva nostalgica, si stanno già dileguando.

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Giulia Jaculli

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