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L’arcivernice: infinitologia (sessantaquattresima puntata)

Pubblicato il: 27/09/2013 10:19:21 -


“L'artista dunque è distaccato testimone del suo tempo, chiarisce con le opere quale può essere l'atteggiamento dell'uomo di fronte alla realtà. Ecco, l'artista coglie, documenta malesseri e non nasconde nulla. Non sceglie.”
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In queste settimane di fine settembre Bologna è ancora un po’ imbambolata, è pigra e insonnolita, così sembra sempre un’isola di pace. La vivo con certe mie bizzarre vocazioni contrastanti, di noia e di una specie di arruffata allegria, come se questo spazioso, ininterrotto taglio di luce che fa cambiare i colori, le vibrazioni luminose e le profondità della scena, scacciasse finalmente certe inquietudini.

Ramon è uno che non rimane, che guarda e poi un giorno se ne andrà, come un disegno solcato in un campo che poi la pioggia cancella.

Ora mi parla a voce bassa come in chiesa, come leggesse piano un anonimo corsivo, per rispettare, credo, questi miei giorni di spazi metafisici, per accordarsi. I primi brividi d’inverno, gli odori di focaccine dolci, i suoni di carta colorata che si scartoccia lenta. Infanzia, cioccolata, sorprese, occhi sgranati. E immaginare l’inimmaginabile. Infinitare: l’antropologa inglese Mary Douglas all’incirca cinquanta anni fa, riteneva che i larghi spazi ordinati perfino incrementassero la rettitudine morale. Io so soltanto che la mente, così, in questi spazi quasi immateriali, mi si avvia verso nuove, libere direzioni, una continuità melodica infinita di gesti e invenzioni inconsuete; brani suonati con la Glass armonica.

Ma Ramon corre sempre dietro la pista della sua filosofia, lui non ha mai questi miei armamentari di smancerie. E mi racconta, calmo ma irrequieto. È come quando Nietzsche ci parla della morte di Dio, della caduta degli idoli. È il timore e tremore di Kirkegaard. Briciole filosofiche. Ma la tragedia, è soltanto una catastrofe distruttiva, oppure offre altre chances? Dionisiacamente parlando, il dolore andrebbe inteso come la sofferenza della partoriente: sarebbe segno di ricominciamento. Una giustificazione forte, questa, per la sofferenza: la ricompensa, il riscatto. Sono lezioni di vita o lezioni di morte? Ma non importa, il bene e il male non vanno tenuti separati come nei film scadenti.

Socchiudo gli occhi appena dentro la stanza di Ramon, nella trasfusione improvvisa di nebulose penombre d’interni.

Ma qualcosa di bianco mi sembra passi e ripassi tra le pile alte dei libri polverosi: fantasmi? O è Ramon che sta ancora usando la sua vernice collosa, come un creatore di Visual Effects. In questi casi lui sembra sempre non avere la percezione di qualcosa che non esiste; io credo che tutto questo sia ritenuto reale da lui: bisognerebbe avviarlo a un buon percorso terapeutico… Col tono della profonda saggezza del Zarathustra, Ramon sorride alle mie pretese di cogliere significati in quelle incarnazioni: “Lascia che le immagini nascano”, mi dice, “è l’effimero dei fenomeni naturali. Vedi? non c’è divario tra la tua esperienza e la mia”. Come i pittori impressionisti vogliono rendere la sensazione allo stato puro, qui forse anche Ramon si propone di liberare la sensazione visiva da ogni nozione, coglierla prima che venga elaborata e corretta dall’intelletto. Io invece assisto ogni volta con stupore al fenomeno, mi interrogo, ne riconosco l’irrealtà; anche se lo scenario, lo ammetto, qualche indice di credibilità spesso lo induce.

Ora sembra, ad esempio, che qualcuno si faccia avanti veramente, scostando una pila di libri come fosse un sipario o una fronda. Un viso carico ancora di attrattiva, gli occhi pensosi e malinconici dell’uomo che ha imparato soffrendo. Solitario e passivo, vittima forse della forza della Natura, si abbandona alla Storia contro cui crede di non potere nulla.

È lui, è il grande, l’immenso William Turner. Certo, lo riconosco intimorita. Proprio per lui lo spazio è un contenuto-forza, che agisce qui e ora. Per lui lo spazio è un’estensione infinita; una forza universale anima quello spazio, un fattore coesivo, e le cose, alberi acque nuvole, sempre si intramano, nella sua pittura. Si intrecciano e si riassorbono in grandi vortici e luci.

Già, si dice che lui abbia anticipato il movimento impressionista. Infatti proprio per gli Impressionisti è così: si propongono di rendere l’autenticità del reale nella purezza assoluta della sensazione visiva, L’impressione luminosa, ad esempio, e la trasparenza, dell’atmosfera e dell’acqua. Smantellando però tutte le concezioni a priori della realtà.

A un tratto, lui, il Maestro, mi parla, e di sicuro non mi sto allucinando la sua frase. Già, quelle immagini incarnate “sanno” quello che abbiamo pensato e che stiamo per dire. Perciò, in un certo senso, ora lui risponde ai miei pensieri:

“Ma non sarete mai voi, a dare senso ai miei spazi”, dice, “sono i miei spazi, la rottura degli argini, che suscitano la reazione passionale. È come per le sinfonie dove l’autore ha scritto lunghi passaggi che sono solo percorsi per condurti, attraverso un cammino silenzioso, verso l’esplosione dei sensi dove tutto è poi suggestione”.

“Eppure”, gli sussurro, “la tua veduta, Maestro, non la sento come veduta ‘emozionata’”.

“Forse, Giulia. Forse la mia non è una veduta emozionata, però è una veduta ‘emozionante’, ti rapisce nell’estasi, oppure ti precipita nello sgomento. Senza che tu pretenda di interpretarne i sentimenti, sfugge al controllo, senza che tu possa far niente”.

Limpide intelligenze, penso, un rapporto come quello che lega individuo e Società: non lo controlli, non puoi far altro che vivere con lucidità questo rapporto, che comunque sarà un rapporto attivo. Devi buttare via però gli schemi, i pregiudizi, le convenzioni. E per toccare con mano la realtà, la luce della Storia, devi eliminare l’illusione, e farlo attraverso la pura e semplice constatazione del vero. L’ambiente della vita può essere accogliente oppure ostile: una nazione in regresso, ad esempio, la decadenza.

“Non c’è nemmeno, in chi guarda” bofonchia allora Ramon “l’ironia superiore del filosofo”.

Il Maestro ci osserva con sguardo distaccato, ma il suo eloquio è solenne: “E perciò” poi continua, scandendo chiaro: “non la proiezione, non l’eco del reale, ma proprio un pezzo di realtà, esperienza lucida, autentica”.

“Perciò la nozione intellettuale sarebbe dunque esperienza inautentica?” Bisbiglio quasi tra me: “Sarebbe un’arte cortigiana, che ti nasconde il brutto della vita poiché non riflette la realtà così com’è, ma come si vorrebbe che fosse…”

L’artista dunque è distaccato testimone del suo tempo, chiarisce con le opere quale può essere l’atteggiamento dell’uomo di fronte alla realtà. Ecco, l’artista coglie, documenta malesseri e non nasconde nulla. Non sceglie.

“L’artista è un testimone a carico, Maestro?”

Ma poi che cosa vogliono queste immagini animate. ‘Loro’ sono già ormai rassegnati, fuori dal sangue della propria opera. Forse pensano ancora in proprio, desiderano cose, vorrebbero portare noi da qualche parte. E se poi anche hanno l’anima di carta…

A volte è una carta fragile, rinsecchita dal tempo. Basta un soffio e si sbriciola.

Joseph Mallord William Turner, Light and Colour (Goethe’s Theory) – the Morning after the Deluge, Moses Writing the Book of Genesis (1843) (Wikimedia, licenza free to share)

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Giulia Jaculli

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