L’arcivernice: Considera la metamorfosi della tartaruga (quarantacinquesima puntata)

Ormai è dicembre inoltrato, ma la giornata è stupenda, esposta tutta al sole. Le celebri penombre di Bologna, il filare dei portici, oggi non riescono ad attenuare questa intensità, i colori gagliardi e gli sfumati. Oggi la luce, con una specie di languore, si stende libera ovunque.

E mi sembra felice anche Ramon, perché il sorriso per una volta sta intersecando la sua espressione pensosa. Lui è stupito, non aveva mai visto Bologna così: i portici, che per la prima volta con un gioco incalzante, anziché mitigare questa gettata di luce, quasi la fanno girare, tanto che adesso, senza imbrigliarcisi, la luce vibra anche di più rimbalzando attraverso quelle cavità.

Molti architetti di questi tempi affermano che il luogo è soprattutto mentale, che è come lo vuoi vedere, che è la conferma di ciò che avevi già deciso di vedere. Loro così ribadiscono che il modo con cui guardi influisce sull’esito di quello che vedi. E il loro scopo non è certo quello di fornire materia di studio alla psicologia sperimentale!

Dunque “qualcosa” esercita su di noi una dolce tirannia?

Qui ha senso forse parlare di emozione, però così siamo all’opposto della cultura della ragione, dove invece “emozione” non ha senso, e dove l’ispirazione si condanna. Dove è vietato il gusto di elaborare con occhi e mente esaltati assieme: perché così non trovi la verità salda, oggettiva, ma sentimenti diversi di momento in momento. Ma la mente, si sa, vuole selezionare i dati sensoriali come le pare, valuta a parte per i fatti suoi. Adopera lo spazio e la profondità in modo che il buio possa venire lacerato da fantasticherie vertiginose. E così la visione è imbevuta anche di sogno.

La voglia di sottrarsi, chiamarsi fuori, forse perché ci accorgiamo che certi fini non sono anche i nostri fini. Ci tappiamo le orecchie come i bambini che fanno finta di non esserci.

Ho sempre davanti a me la risorsa di quel percorso: il bar di fronte alla casa di Ramon, con la macchinetta dove i ragazzi giocano a video-qualcosa, gli occhi da formichiere di quella donna della guardiola… Anche in questi momenti vorrei una specie di guscio di tartaruga in cui ritirarmi. Eppure la saluto, e lei impugna la risposta come un’arma, con la sua voce stabilmente arrochita in basso cavernoso.

Ma quello è l’unico campo di gioco che esista per sentire le voci, con l’Arcivernice. Qualche risposta pertinente alla “query”.

“Il meglio, alla fine, sta nel vedere con gli occhi e con la mente assieme?”. Domando già: “Ti viene naturale combinare le parti, in un processo sinergico che aumenta la potenza di ciascuna. Non puoi tagliare con l’ascia, vedere un bianco totale senza retinati, senza nemmeno grigi. Oppure vedere il nero più brutale, assoluto come l’ombra lunga della paura”.

Eccolo lui, il grande Le Corbusier. Per primi appaiono soltanto quei suoi occhi attenti, galleggiano nel buio. Poi la figura intera si protende a possedere lo spazio, a captare la realtà. Ma di lui non c’è solo inerte estensione, c’è il ritmo motorio dell’agire, il gesto rapido, risolutivo, come nel suo disegno.

Così continuo: “Perché, maestro, la sua opera a un tratto ha impresso genialmente un ritmo imprevisto? È l’esito anche il suo, forse, del disinganno amaro che dopo la seconda guerra mondiale ha demolito la sua illuministica, utopistica fiducia nella razionalità naturale degli uomini?”.

“Vedere meglio, Giulia. Che non vuol dire vedere di più come con il cannocchiale. Vuol dire usare gli occhi come strumenti che vedono, e insieme la mente che intanto riordina i dati sensoriali”.

“Ma sulla scia dell’emozione del momento – insisto – la mente forse si impone, tracciando un percorso per arrivare a un’interpretazione più morbida, giocosa: spesso la felicità dell’esistenza e forse non la vita per quello che è. È una visone fedele, maestro? La volontà di conoscere il mondo o un’interpretazione per evitarlo?”.

Cerchi di sintonizzare la tua esperienza in modo tale da non dover fare i conti con la realtà, continuo dentro di me. Una realtà che però non si dovrebbe liquidare con facilità.

Il grande architetto sembra scrutare attento anche nel mio pensiero: “In quei momenti decisivi della Storia, e non solo la storia delle forme ambientali”, dice, “bisogna sempre rifiutare elementi discordanti con la chiarezza del razionalismo di chi per molti anni, anche oscuri, è riuscito a credere ancora nel ruolo illuminante della ragione umana”.

Io penso a ciò che afferma Borges nella sua “Metamorfosi della tartaruga”: “L’arte vuole sempre irrealtà visibili”. O, per contro, penso alla celebre definizione dell’architetto Pier Luigi Nervi, per cui l’arte sarebbe la fusione “di multiformi aspetti”. Dunque aspetti scientifici, estetici, tecnici e sociali, che esprimono “la capacità di un popolo, il grado della sua civiltà”.

Allora anche Ramon, un po’ sconvolto per quei personaggi che vado a scovare, pone subito lui la sua domanda, e lo fa con solennità semiseria, mentre sembra che srotoli man mano una pergamena con sopra scritto un proclama reale: “L’arte dunque non è irrazionalità pura, per gli architetti che applicano alle città la teoria dei valori visivi, che si interessano della psicologia dei luoghi e anche del tormento esistenziale dell’uomo!”.

E io subito aggiungo, quasi avidamente: “Maestro, anche in questo periodo di comunicazione onnivaga, l’arte non è libertà assoluta, inventiva del pensiero?”.

Di tanta frenesia interrogativa Le Corbusier non raccoglie la suggestione, quasi intendesse spogliare anche questa vicenda da ogni esclamativo. E la sua immagine sfuma, mentre un singhiozzo va lontanissimo a fondersi con la carezza dell’aria.

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Giulia Jaculli