L’arcivernice: Il Doctor Angelicus (trentaseiesima puntata)

Ramon meditava sulla critica del concetto di sostanza sviluppata da parte dell’empirismo inglese, da John Locke in particolare.

Da un lato gli era evidente quanto questo concetto fosse metafisicamente compromesso (nell’accezione di “metafisica” postkantiana e in specie della così detta filosofia analitica), dall’altro si chiedeva come se ne potesse fare a meno, senza affogare nella broda cartesiana. Togliamo le sostanze, pensò, assumiamo cioè che non esistano. E qui ebbe due visioni. La prima fu di un mondo in cui tutte le cose si mettessero a correre, come in un film proiettato a velocità supersonica, molto più veloce, cioè, di quando noi scorriamo in avanti o indietro velocemente un film, per ritrovarne un punto preciso: figure quasi indistinguibili, macchie colorate quasi prive di forma. Tutto che sibila e corre, tutt’intorno. La seconda visione era quella opposta: tutte le cose si fermano, si cristallizzano, non c’è modo di spostarle di un millimetro; tu giri entro questo assurdo labirinto, che non ha vie d’uscita, e ti ritrovi sempre allo stesso punto. Ramon capì che aveva ritrovato Eraclito e Parmenide. E capì anche che il suo Io era divenuto un fascio di percezioni, senza una contropartita razionale. Allora la sostanza ci è necessaria, pensò. Ma, d’altra parte, indispensabile o no che sia, resta spalancato il problema di cosa essa sia.

Ramon capiva bene che avrebbe dovuto riparlare con il maestro di color che sanno, farsi rispiegare daccapo; ma d’altra parte sapeva bene che ciò travalicava le regole dell’arcivernice. Che fare? Si ricordò allora di un consiglio che una volta gli aveva dato il suo strampalato professore di filosofia del linguaggio: leggi pure le edizioni moderne di Aristotele, l’Opera Omnia di Cambridge, leggi i commenti, come quello stupendo di David Ross ai Secondi Analitici; se vuoi rendere concreto Aristotele, leggi la traduzione inglese. Ma se i conti non ti tornano, se capisci di non capire, allora leggi il Didot, e guarda il latino. E leggi i commenti di Tommaso: nessuno ha capito Aristotele quanto Tommaso. E tuttavia, per quanto Ramon fosse in quel periodo in una fase di agnosticismo, quanto meno sul piano filosofico, parlare con un Santo (e che Santo!) gli creava una certa titubanza. Ma la Curiosità, che, come dice Vico, è sì figlia dell’Ignoranza, ma è madre della Scienza, non poteva non prevalere.

Tommaso era corpulento, non tanto alto ma imponente, pochi i capelli e una chierica che rasentava la calvizie.
– Che cos’è la sostanza, Maestro?
– “Substantia est quod existit in se et per se”. “In se et per se” stanno per “kath’hautò” e “he autò”. L’essere “per se”, ossia “a causa di sé”, il non avere bisogno d’altro per essere. “In se” significa non in altro, come il bianco che deve stare “nella cosa”, ma l’autosufficienza del darsi “da soli”, senza appoggio esterno. Un cavallo non ha bisogno dell’essere sauro, ma l’esser sauro ha bisogno del cavallo. Rendiamo la cosa allo stato attuale della modernità: i mondi possibili delle semantiche “à la Kripke”, o, meno tecnicamente, “à la Benson Mates”. Ci può essere un mondo possibile senza cavalli? Certamente. Ma è concepibile un mondo possibile in cui vi sia l’ “essere sauro” e in cui non vi siano cavalli? Di fatto, chi cerca di andare oltre Aristotele assume la persistenza degli individui, o di alcuni di essi, nella catena dei mondi possibili e, nell’indicizzarli, ne fa variare le “proprietà”.

Ramon non era così ferrato nelle semantiche modali e questo tipo di risposta, assolutamente antiscolastica, lo lasciò frastornato. Da Tommaso si aspettava tutt’altro. Pensò allora che un genio non può essere prevedibile, non sarebbe più tale.

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Maurizio Matteuzzi