L’arcivernice: Filastroccare (settantacinquesima puntata)
Questo mi fa ricordare... Sì, proprio Virginia Woolf concepiva la letteratura come ordine, da contrapporre al disordine della vita. Ma io non sono sicura che sia così, penso mentre percorro la strada che separa la mia casa da quella di Ramon tanto diversa, avvolgente.
Carnevale a Bologna: vorrei che fosse “leggero”.
Beckett aveva scritto con le matite colorate gli originali delle sue Mirlitonnades, cioè le poesie “da quattro soldi” (le mirliton è il piffero, in francese). Con penne e pennarelli di tante sfumature di colori. E aveva scritto quegli originali su cartoncini e fogli arcobaleno, su un sottobicchiere, un orario dei treni, sull’etichetta di un’allegra bottiglia… filastroccate. Già, filastroccare… E invece qui, in questi giorni di carnevale, c’è come una tristezza secca e asciutta, quest’anno, come di chi si consegna ormai indifeso al mondo, e al suo significato.
Architetture che smottano, come per questi non previsti mutamenti improvvisi, alterazioni che sacrificano senza pietà la logica, l’unità della forma.
Già, è carnevale anche in questo sprofondo. Però siamo in attesa, come dice Isaia, “di nuovi cieli e nuove terre”.
Vorrei trovare la chiarezza, un po’ d’ordine.
Questo mi fa ricordare… Sì, proprio Virginia Woolf concepiva la letteratura come ordine, da contrapporre al disordine della vita. Ma io non sono sicura che sia così, penso mentre percorro la strada che separa la mia casa da quella di Ramon tanto diversa, avvolgente.
“Opaca, quieta intimità”, così Virginia una volta aveva definito la sua vita di scrittrice. Ma lei avrebbe avuto un istinto anarchico, tenuto a bada da una devozione formale che però sfarfallava di continuo. Decisioni normalizzatrici: aveva forse voluto costruire dei fortini intorno all’instabilità mentale che la minacciava fin dall’infanzia. Quanti giardini, perciò, nella sua vita, quante finestre a riquadri di legno bianco, e poi la vista di una chiesa contro le colline.
In casa di Ramon lei, Virginia, si presenta di spalle, il gesto congelato mentre ancora guarda fuori dalla finestra. Così assente-presente, lei, inafferrabile, ma è proprio lì, e guarda dalla finestra quasi che fuori ci fosse tutto il mondo. Anch’io allora seguo quello che lei vede, e anch’io mi sento per un po’ in quella sua solitudine di viandante smarrito.
Forse ho formulato i miei pensieri ad alta voce? Perché lei lentamente si volta verso di me.
Virginia ha un viso ascetico: si dice mai, del viso di una donna? Certo ha sempre bandito il superfluo, con uno stile privo di espressioni esagerate. Ascetismo deriva da ascesi: rigore, morigeratezza, perciò rinuncia, deprivazione della corporeità. Ma “può” una donna essere priva di qualcosa che da fuori viene spesso sentito proprio come una provocatoria corporeità?
“Rivoluzionaria solo nella narrativa!” Con una voce armoniosa Virginia Woolf sembra rispondere a queste mie domande ancora mute. “Per il resto avrei voluto la discrezione, senza l’inutile agitarsi” mi dice, infatti.
“Ma forse” le rispondo sottovoce, dubbiosa “nella scrittura bisogna anche non cadere in eccessi di discrezione, essere invece generosi, anche quando si è alle prese con terribili trame. Bisogna liberarsi, e che le forme chiuse si sciolgano e si avverta, fantastica, la vita…”.
“Io ero ossessionata” lei ribatte “da quel sentirmi dentro una vita instabile, e quando tutto trema intorno a noi…”. Per un momento non parla, come se le si fosse spezzato anche il respiro.
Frammentazione e transitorietà, e ansia di ricomporle e di fermarle, penso.
“Sì”, rispondo poi a quell’immagine pallida, esangue, aristocratica: “Per te, e perfino nel tuo tempo, il sentirsi era incerto, come adesso per noi. Un panorama sconvolto, sghembo, tutto il crollarti intorno delle cose. E allora tu, Virginia, provi a fermarti e cerchi di conoscere l’anima. L’interno, quindi, della vita. È questa l’avventura che t’interessa”.
“Come scrittrice rifiuto lo ‘spaventoso metodo’ dei realisti [1]. Un disegno d’insieme mi sfugge, non riesco a dare unità all’esperienza, mi riaffiorano solo i suoni, le impressioni, le immagini, le sensazioni tattili e visive”.
“Così tu cambi le forme del pensiero, il modo dello scrivere, non credi che il senso della vita sia chiuso da una trama di eventi, non puoi, non vuoi farlo; così trasformi in modo radicale l’arte del narrare”.
“La forma si ricava dalla libertà, Giulia, non si subisce dai fatti che succedono”.
“Ma per te è una continua battaglia contro le forze estranee. Frammentazioni. Un continuo bisogno di conquistare la misurata unità. Non è vero, Virginia?”
Alzo lo sguardo, e lei è già di spalle un’altra volta, congelata in quel gesto che la condanna. Sembra che si allontani sempre giù, verso un fiume, il cappotto pesante, le tasche già piene di pietre. E le sue scarpe affondano pian piano nella fanghiglia dell’argine.
Meglio filastroccare, è carnevale.
**
Note:
[1] Cfr. Nadia Fusini, “Possiedo la mia anima”, Arnoldo Mondadori, Milano
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