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L’arcivernice: … ed è subito sera (sessantottesima puntata)

Pubblicato il: 19/11/2013 10:13:16 -


Nella fotografia, Hannah Arendt sembra guardare il vuoto alla ricerca di un senso, come un quadro di Hopper. “Ti parlerò di questa tua paura del futuro senza alcuna accezione spregiativa, Giulia, perché anche nella vostra Babele politica e culturale, dove tutto si mischia, si confonde, non si può altro che essere demotivati e confusi”. Lei inizia a parlare “ex abrupto”.
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Il buio arriva presto, da quando l’ora solare è rientrata nei ranghi. La sera fa un balzo in avanti improvviso, e con un passo vorace sguscia fuori un ‘notturno’ atonale.

E adesso? Si prospettano notti sfocate, suoni sordi, notturni in si bemolle da dimenticati da Dio. Perché non so più leggere con ironica spavalderia tutto questo? Mi sentivo in un mondo poetico, circense. Adesso non so più abbandonarmi lieta al futuro; in questo buio di periferie senza speranza non si sa che futuro immaginarsi. È un brodo di coltura delle malinconie. Tutta la vita davanti, sì, ma è come camminare in una notte senza luna, in mano soltanto una candela: tutto quello che poi ci viene incontro a spezzoni, ai bordi della strada, è inaspettato e indistinto. È lo spegnimento sgangherato di ogni profondità.

Allineati in casa di Ramon, quei volumoni pesanti di filosofia creano effetti gotici, un bisbiglio attraversa quei libri come un coro lontano, una specie di nemesi sonora, d’ineluttabile vendetta. La mia poetica adesso deve lasciare da parte i dubbi e le riserve circa il delirio entro il quale queste figure a un tratto, sotto un pennello, si sviluppano. Storie di lievitazioni. Come l’antico sogno di bere l’ambrosia degli dèi. La mia poetica adesso deve fondarsi sulla ricerca del movimento nella fotografia, sulla possibilità di restituire una vita di sentimenti e di emozioni alla carta patinata. Facce e corpi che lottano con forze ed eventi misteriosi e violenti. Devo farlo, a costo di torturare anch’io queste figure con un pennello e una strana vernice.

Nella fotografia, Hannah Arendt sembra guardare il vuoto alla ricerca di un senso, come un quadro di Hopper.

“Ti parlerò di questa tua paura del futuro senza alcuna accezione spregiativa, Giulia, perché anche nella vostra Babele politica e culturale, dove tutto si mischia, si confonde, non si può altro che essere demotivati e confusi”. Lei inizia a parlare “ex abrupto”.

In questa confusione naturale e artificiale l’Arcivernice m’invade ogni volta. Mi viene da pensare al mito di Prometeo: l’uomo che trasgredisce e che teme però di venire punito per il suo oltraggio alla sacralità. Ma la sacralità viene a cadere, se in fondo sto parlando con un post-umano, se l’artificio è entrato nel suo corpo, e lei vive in questa forma succedanea. Così, chiamandola per nome, mi aiuterà ad ancorare al concreto quella sua figura aggraziata.

“Infatti, Hannah”, ribatto sottovoce, “qui, in questo gioco, adesso tutti si tirano indietro sconcertati. Lasciano fare, anziché provare ad accenderci la fantasia, a insegnarci a rubare suggestioni, a far fiorire in noi qualche loro esperienza per trasformarla in qualcosa di nostro”.

“Officianti troppo discreti!” Lei mi risponde subito. “E se accusati, rispondono di volervi riconsegnare la vostra ingenuità, mentre invece, irresponsabilmente, vi portano a una condizione impersonale, in un piattismo cerebrocardiaco. Non siete più capaci di essere ‘due-in-uno’, parlare con voi stessi, così poi vi trovate calati in una prospettiva indecifrabile, dove ogni certezza si sfalda”.

“Dunque uno stile basso, Hannah, tutti noi oggi appoggiati su questo terreno limaccioso…”, la incalzo con perplessa ammirazione. Lei mi guarda affettuosa, mi conquista, con questo nostro dialogo ardito, così sono obbligata ad ammettere tra me quello che più vorrei allontanare: che così ti consegnano all’analfabetismo, all’ignoranza. E poi le dico ancora: “Pochi respingono questo disimpegno per affermare il dovere di intervenire sulla persona. Tutti acquiescenti, e perciò complici…”.

“Sì, tutti si adeguano al ‘conformismo sociale’, ciò che può trasformare una persona mediocre in un mostro!”

Quasi la sua voce adesso trema di sdegno. E poi: “Vedi, Giulia, voi siete nuovamente nella crisi che Husserl descrive come la caduta di quella finalità, di quel telos, che sarebbe innato nell’umanità. Il rischio è che l’acquiescenza si trasformi nella complicità ai più terribili misfatti. La volontà dunque dev’essere: formare un’umanità fondata sull’agire per la conoscenza”.

“Perché è poi dall’agire che dipende il conoscere…” continuo io quasi timidamente.

“E dunque dall’agire dipende anche quel senso morale che deriva dall’intimo viaggio dentro il sé!”, lei mi risponde ficcando uno sguardo ora impietoso anche su di me. E poi: “Il dramma è l’isolamento di chi, gettato nella solitudine, è ridotto a profeta che parla nel deserto”. E continua severa: “Se la parola è materia non più animata, se la parola non è significante, se non è poetica là dove la poetica è poiein, fare, il fare che prevale sulla teoria: allora la parola non esprime, non comunica altro che uno stato di malessere”.

Sì, penso, è quella la banalità arrogante e insieme ingenua e smargiassa, così perfettamente espressa, oggi, da Jeff Koons. Lui, l’icona neo-pop, l’illustratore ironico della banale forma stucchevole di quotidianità massificate.

Così, stordita e come avvolta dalle gigantesche, vivide immagini di Koons, sussurro: “Tutto è terribilmente normale, Hannah?”

Ma mi è sfuggito l’attimo in cui lei sta già svanendo piano piano. Era una goccia brillante che in questo buio freddo, umido come di febbre, tremola ancora sulla pagina. Esita un po’ a svaporare.

La notte è presto arrivata, col suono misterioso del si bemolle: una nota infelice.

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Immagine in testata di Ben Northern / Flickr (licenza free to share)

Giulia Jaculli

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