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L’arcivernice: Death and Disaster (ventiquattresima puntata)

Pubblicato il: 05/05/2012 09:56:32 -


“Si compra per consumare e ricomprare ancora, e per riempire i vuoti svuotati”. Giulia riporta in vita Andy Warhol e lo interroga su morte e materialità.
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Mi terrorizza a volte una mia nuova fantasia: in una fase intermedia mostruosa, tutte quelle figure, sotto l’effetto dell’Arcivernice, passano, nella loro rinascita, attraverso un aspetto fetale di piccoli corpi umani rannicchiati con teste enormi calve, vecchieggianti e pensose.

Sì, sono stanca. I miei amici si sono accorti tutti di qualcosa, e pensano a un’influenza negativa che viene da Ramon.

Quel mio famoso entusiasmo, la prospettiva ottimistica, che è propria della scienza, di guardare al futuro come progresso, tutto questo si è in parte affievolito. Tutti i saperi mi attraggono, ma la filosofia non mi fa bene, con le sue parti cupe, tenebrose, quella visione sotterranea del mondo, gli aspetti dottrineschi con la pretesa di educare gli uomini. Quante promesse storicamente fallite…

Questa è una società del fare per distruggere. Ma un mondo che viene consumato come se ognuno se ne mangiasse voracemente una parte, che mondo è?

“Comprare è molto più americano di pensare”, aveva scritto Andy Warhol nella sua “Filosofia”. Sì, si era detto tanto che l’America fosse il paese del consumo, della ripetizione, dell’uso, dell’omologazione. E adesso anche qui, tutti abbiamo gli stessi idoli, tutti guardiamo le stesse cose, tutti mangiamo la stessa zuppa. Se infine proprio questa è la virtù della democrazia, ciò che però ne risulta, è veramente l’immobilità di un cadavere?

Nel silenzio della stanza di Ramon la mia voce rimbalza imprevedibile, come fa il gioco con la palla ovale. E nell’ultimo bagliore del tramonto, non accendo la luce.

Non mi è rimasto un grammo di criterio: sto lambiccando ancora furibonda con l’Arcivernice.

L’uomo si sveglia traballando sulla pagina senza fare rumore, pallido e degradato come un clone, mi guarda solo un istante, con distacco. Sono terrorizzata, perché ancora mi appare come un’ombra che si muove dietro a una tenda. Può essere che uno, gironzolando, sia penetrato di soppiatto nella stanza. Sarebbe anche più verosimile e normale. Ma invece è proprio Lui, Andy Warhol, che fissa distaccato davanti a sé, mentre la tenda si gonfia, ondeggia un po’ producendo un fruscio lieve, una musica triste ma reale, che in parte mi consola.

Conosco bene l’immagine di Warhol, è freddo, inaccessibile, sfatto, come la sua pittura, ma spinta da un moto compulsivo, oso parlargli:

“Ho in mente, Maestro, tutte quelle cose che noi consumiamo. Cose guardate da migliaia di occhi, pupille che le hanno osservate, passando e ripassandoci sopra. Finché, come la statua di Guidarello a Ravenna, sono state scavate, erose, degradate”.

“Si compra per consumare e ricomprare ancora, e per riempire i vuoti svuotati”. Lui mi risponde, mentre il suo viso gelido, gessoso, si incrina sgretolandosi in una smorfia per un attimo.

“Maestro, le tue opere rappresentano immagini di cose troppo logorate da una esagerata frequentazione della mass culture…”.

“Sì”, mi risponde, “maschere che volevano porsi prive di potenziale emotivo. Oggetti – o personaggi, non importa – che erano allora molto ‘nostri’, molto americani, tutti con un aspetto, o un sorriso, congelato, lontano, mummificato”.

“Erano dunque macabri feticci, erano tutti morti, come del resto così era il titolo della tua serie di opere fatte tra il 1962 e il ‘63: ‘Death and Disaster’. Dunque i tuoi quadri parlano di morte. Ma perfino la morte, filtrata dall’informazione, perde la sua drammaticità e diventa così più morta ancora”.

Lui allora mi coglie di sorpresa, fissandomi con il lampo di uno sguardo intenso, come solo i poeti e i bambini sanno fare. “È perché”, mi risponde, “io volevo evocare un dramma più devastante ancora, la noia, il completo distacco da ogni impegno emotivo, l’insensibilità alle tragedie, l’indifferenza dell’informazione che trasforma in spettacolo ogni cosa. Mettevo lì quegli oggetti a interrogare gli spettatori sul loro significato profondo”.

Lo guardo anch’io con dolcezza: “Volevi trasformare te stesso in una macchina che registra impassibile la realtà, ma registrare così è stato un atto d’amore”, gli dico piano. “È come quando si guarda fermi in silenzio la persona amata che se ne sta andando. La lasciamo libera di andare, di scegliere il modo migliore per porre termine al nostro rapporto”.

Muta spettatrice della sua dissoluzione, osservo la pallida presenza di Andy Warhol che, consumandosi anch’essa piano piano, galleggia nella stanza ancora un po’, mentre il suo sguardo, che si atteggiava a gelido disinteresse, sta riannegando in un mare di nebbia.

“Ciao” gli dico sottovoce. “Adesso puoi tornartene a casa, e come ogni giorno desideravi, puoi toglierti il costume da Andy”.

Nell’aria continua a suonare quella musica triste, in re minore (1). Sola, non riesco a capire da dove viene questa nostra paura del nulla. Quel nostro maledetto horror vacui.

(1) Quella in re minore è la tonalità della morte nella musica.

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Giulia Jaculli

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