L’arcivernice: Tra il grottesco e il demoniaco (diciannovesima puntata)
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“Chi non capisce teme, Maestro? È la zona scura di un pensiero che non permette nulla?”. Giulia riporta in vita Goya per qualche minuto e con lui ragiona... sul sonno della ragione.
La libreria di legno scricchiola nella penombra, sembra che emerga dal buio, pervasiva e sinistra con una litania di lamenti, una specie di coro scombinato di voci stridenti che implorano di venire incarnate, chiedono di essere liberate dal controllo colloso di quelle loro immagini di carta. Sono voci narranti confuse tra le parole stampate, e non possono che bussare alla pagina. È innegabile, ormai, sono suggestionata dai fatti che sembrano succedere qui dentro. Ma io ne sono certa: qui c’è soltanto una vecchia libreria sgangherata, che sembra poter cedere da un momento all’altro cigolando penosa sotto il peso dei tanti volumi stipati. Pile sbilenche di DVD, uno zaino pieno zeppo di roba, e un’altra borsa per il computer stretta lì in mezzo.
Mi sono avvicinata senza averlo deciso. Titoli prevedibili, la Spagna di Ramon, e poi Filosofia di questo, filosofia di quello.
Ma di traverso sui libri allineati, ecco un volume su Francisco Goya.
Ramon ritorna sempre tardi, di venerdì. Ho tutto il tempo…
Goya nell’Autoritratto del 1815. Ho in mente le grandi pennellate furiose di Lui, quando in un’estasi da adrenalina mi do da fare con l’Arcivernice.
Sono inspiegabilmente euforica, e come l’altra volta, non ho paura. Ma sono proprio io questa persona, che forsennata spennella una vecchia copale che odora di zolfo sulla figura di uno che ha calcato la terra nel Settecento? Proprio io, che di norma voglio riportare ogni aspetto della vita ad una formula, alla sistematicità di un calcolo matematico? Io che credo ci sia un algoritmo dietro ogni esperienza visiva e sensoriale, dietro tutto ciò che si fa, dal comperare una cosa piuttosto che un’altra, fino alla parvenza di un folle innamorarsi?
Come in risposta ai miei pensieri dubbiosi eccolo qui davanti, Lui, Goya. L’aspetto burbero, lo sguardo acuto, indagatore, che mi intimidisce. Ma debolmente gli parlo.
“Si sa che lei, Maestro, metteva in luce i difetti della natura umana. Cercava dunque un riscatto dell’arte dai criteri formali in cui si era isolata?”.
“Un riscatto, non soltanto dell’arte” subito mi risponde, e la sua voce è aspra, severa, obiettiva, come la sua pittura. Già: il suo interesse per gli emarginati, i mendicanti, gli infermi, cui anche allora la Storia concedeva scarsa visibilità.
Con quei suoi occhi scuri, penetranti, lui sembra leggermi il pensiero.
“El sueño de la razón produce monstruos!” ripete infatti le sue stesse parole. Il sonno della ragione genera mostri, traduco sottovoce. La ragione, perciò, illumina, e quando manca questa, la stupidaggine con quei suoi pochi neuroni, può viaggiare ad una velocità che supera la velocità della luce. Dentro quel tunnel buio. In questi giorni si dice che neppure i pochi neutrini sarebbero capaci di farlo.
Lui mi guarda, questa volta perplesso. Con le sue descrizioni della stupidità, del lato oscuro e bestiale della natura umana, nell’ebetismo di certe facce, vede ben oltre lo scientismo dei neuroni, e tanto più dei neutrini.
“La luce…” borbotta allora concentrato “o invece il buio del colore-non colore, che è poi metafora di un certo pensiero…” man mano si rinfranca “Persino i colori possono ritrarsi!”.
“Chi non capisce teme, Maestro? È la zona scura di un pensiero che non permette nulla?”.
Goya mi guarda fisso stringendo gli occhi e sollevando lentamente il mento.
“Il non veduto” provo allora a spiegarmi “è ormai la graduazione dei valori/colori, nella massa servile, nella cosiddetta civiltà attuale. E allora la missione può essere straordinaria. Ma occorre ancora indignarsi, mettere in luce, dato che questa mia società, Maestro, è fatta anche di autentico genio, che è ipocritamente ignorato in patria”.
“Sarebbe ancora necessario purificare l’aria”. È il pensiero di Goya. Ruvido realismo, tutt’altro che neoclassicista.
Quanti asini in cattedra o al capezzale di malati, nei Suoi Capricci, non è vero, Maestro?”
Mi rivolgo a Lui, timidamente complice. Ma alzando gli occhi, una girandola fluida, ed i colori si stanno già rimescolando, impastandosi insieme, e risucchiati, vanno a formare per un istante la tinta scura di quelle sue Pinturas Negras, le Sue Pitture Nere desolate, di fantasmi deformi. Poi alla fine, lento, si ricompone sul foglio l’Autoritratto, nella sua silenziosa fissità. Ma quello sguardo, sembra non smettere mai di osservare attentamente il mondo.
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Giulia Jaculli