L’arcivernice: Ramon scopre un delitto (settima puntata)
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“Io di solito facevo la parte di Socrate, ma quella volta impersonavo un filosofo eleatico, a cui non ho voluto dare un nome”. Uno studente di filosofia riporta in vita i grandi pensatori del passato. In questa puntata è a colloquio con Platone.
Le parole non dette, possono avere un senso? Qual è lo status ontologico dell’assenza? Giustamente Stumpf propone l’esempio paradigmatico: “un paese senza montagne”. Come individuare meglio l’Olanda?
Se vedo un uomo con una gamba sola, quello che colpisce la mia percezione non è la gamba che vedo, ma quella che manca. Ciò che manca assurge a principium individuations, a elemento determinante che distingue quell’oggetto. Ma come può “ciò che non è” sostenere una semantica?
Ramon aveva dunque questi pensieri; e intanto, solo parzialmente in modo esplicito, si chiedeva chi avrebbe potuto interrogare su una questione del genere. Sfogliò avidamente i suoi libri, ma non gli riuscì di trovare un’icona di Parmenide, che ovviamente sarebbe stata la scelta più naturale.
D’improvviso gli capitò sotto gli occhi un’immagine di Platone. Rimase lì per lì dubbioso. Platone, il grande, l’immenso Platone. Ma che c’entrava Platone col nulla? Platone è filosofo del pieno e non del vuoto, pensò; è l’inventore della spesa ontologica più grande di tutte. A Platone non bastava un mondo, ne volle due, oltre a questo l’iper-uranio “ciò che sta al di sopra del cielo”. Altro che nulla. Ma poi Ramon rammentò la celebre affermazione di Whitehead: “la filosofia occidentale non è altro che un seguito di note a pie’ di pagina ai dialoghi di Platone”; lì, dunque, in quei dialoghi, ci doveva essere anche la spiegazione del nulla. Di corsa all’arcivernice!
A mano a mano che l’icona prendeva forma, Ramon, oltre che la mai scemata emozione, provava uno stupore sempre maggiore: Platone era veramente a ragione detto “l’uomo dalle larghe spalle”: alto, fiero, con un fisico più da lottatore delle arene dei leoni che di quelle del pensiero. Non era poi così incredibile che si fosse liberato dai pirati durante il ritorno dalla Sicilia. Platone, ricco, nobile, proprietario delle terre dedicate all’eroe Accademo. A Ramon venne in mente di come dovette sentirsi intimorito, a disagio, il giovane, diciottenne Aristotele quando il padre Nicomaco lo portò alla presenza del sommo Platone, affidandolo al suo insegnamento, cui egli avrebbe dedicato vent’anni della sua vita.
“Il ‘nulla’, Maestro. Cosa possiamo dire del nulla? Non è forse il nulla ‘ciò che non è’? E se il discorso vero è dire ciò che è, non sarà dunque falso tutto ciò che diciamo del nulla?”
“Vero è il discorso che dice, di ciò che è, che è, e di ciò che non è, che non è”.
“Ma come si può dire il non-essere?”
“Quello che tu dici lo ha già detto il grande Parmenide eleate. E ha scoperto una grandissima verità. Ma io ho già spiegato in che modo e in che termini essa va ripensata”.
Qui Ramon ebbe un attimo di scoramento. Non conosceva ancora abbastanza i ventisette dialoghi di Platone, ne aveva letto, sì, qualcuno, ma non gli veniva in mente un gran che sul nulla. Alla fine si risolse di ammettere implicitamente la sua ignoranza.
“E dove, Maestro, dove l’hai scritto?”
“Nel ‘Sofista’, mio caro; dialogo che ci impegnò, assieme al ‘Teeteto’ e al ‘Politico’, per molte sere nelle caldi estati ateniesi. Dovemmo rappresentarlo più e più volte, perché la materia era ostica”.
“Rappresentarlo?”
“Certo. Non capisci che era il nostro modo di studiare, di ragionare? Ognuno degli allievi più vecchi doveva sostenere un ruolo, mentre i più giovani trascrivevano. E magari la sera dopo si replicava scambiando qualche parte. Ignori tu forse che si tratta di dialoghi? Io di solito facevo la parte di Socrate, ma quella volta impersonavo un filosofo eleatico, a cui non ho voluto dare un nome. Socrate, che in quella occasione era una parte secondaria, lo affidavo spesso a Speusippo, che non se la cavava poi male.
A Ramon si stava aprendo un mondo. Non ci aveva mai pensato. Ecco come si studiava all’Accademia, ecco il perché della forma dialogica. Si immaginò Platone che assegnava le parti: “Tu questa sera fai Teeteto, attento a ragionare come lui”. Il teatro scorreva nelle vene dei Greci…
“Maestro, ma perché non gli desti un nome, all’Eleate?”
“Perché il suo destino era quello di compiere un delitto”.
Ramon era confuso. Non riusciva a farsi un’idea.
“Un delitto? Possibile?”
“Già; e non un delitto qualsiasi, ma uno dei più gravi: il parricidio”.
“E… questo delitto poi l’ha compiuto?”
“Certamente. Andava fatto. E chi meglio di un eleate poteva portarlo a compimento? Andava fatto perché eravamo rimasti prigionieri, e tutti ci dovevamo liberare. Il grande padre Parmenide ci aveva lasciati, senza speranza, in un mondo privo di moto e di cambiamento. Eravamo fissi, impietriti, senza che potesse accadere qualcosa, senza che qualcosa cambiasse, senza che potesse sbocciare un fiore. Tu capirai che questa è la somma delle torture: l’eternità davanti a noi, tutta uguale, per sempre. Persino il dolore sarebbe stato meglio. L’essere è fermo, fisso nei suoi stretti legami. L’essere è, il non essere non è, senza alcuna mediazione, senza alcun commercio, senza alcuna interazione dialogica. Era la morte del logos, il fuoco eracliteo imprigionato come prima di Prometeo, indomito e sofferente, senza potersi dare pace, nella gabbia dell’essere e del nulla. E così avrebbe avuto buon gioco Gorgia, in quanto scrive in ‘Su ciò che non è, ovvero sulla natura’. Ecco dove ci aveva condotto il grande padre Parmenide, nel disvelarci l’essere. Ecco allora che l’Eleate matura il dovere morale del parricidio: il padre Parmenide va ucciso”.
Un po’ affascinato e un po’ esterrefatto Ramon ascoltava, pendendo dalle sue labbra.
“Non sempre il nulla non è. Questa è l’arma del delitto. Vi è il nulla assoluto, di cui non si può predicare sensatamente nemmeno l’inesistenza: è un nulla che non può essere ypokeimenon, non può assumere il ruolo di soggetto di predicazione, non può essere legato alla copula: quello è il nulla parmenideo. Ma poi c’è un nulla nel logos, un nulla che brucia, che arde in mille forme diverse. Un nulla non parmenideo”.
“Un nulla che esiste?”
“Vedi ragazzo, vedi bene: tu sei più piccolo di me. Come ti chiami?”
“Ramon, signore”.
“Ebbene, ora io dico che Ramon non-è alto come Platone. Sei d’accordo?”
“Certamente”
“Ma io di Ramon ho detto che non-è. Ho predicato il non-essere di Ramon?”
“Mah…”
“Vedi bene che tu non hai cessato di esistere, per quanto la mia affermazione fosse vera. Tu non sei entrato a far parte del non essere assoluto parmenideo, del quale peraltro nulla può far parte. È tuttavia pur vero che tu non-sei alto come me. Che cosa non-sei? Tu non sei come altezza di due metri, ma evidentemente, per un altro verso, sei. Non sei forse Ramon? E dunque, il logos, quello vero, appena detto, il discorso che abbiam fatto e su cui abbiamo convenuto, contiene un po’ di non-essere… Ma si può suddividere, fare parti, fare a fette il non essere? Vedi bene che è assurdo”.
Qui Ramon stava ben comprendendo, sperimentandola di fatto, tutta la maestria con cui Platone esercitava, nei dialoghi, l’ironia e a maieutica socratiche: era stato portato allo stordimento. Ora era pronto al tirar fuori, al cercare in sé, nell’anamnesi, con altri occhi. Aveva perso i pre-giudizi, ed era nudo con la sua sola ragione, in attesa dell’ultimo aiuto del maestro perché si compiesse lo scatto finale.
“Quando io dico che A non è B, non intendo dire che A non è, non voglio gettare A nella buia gora del non essere parmenideo; il quale, impenetrabile, anziché assorbire, rigetta tutto. Quel che voglio dire è semplicemente che A è diverso da B. Altro è il predicare la diversità, altro il non essere. E tuttavia l’essere diverso partecipa del non essere lo stesso-di, diverso è il non eguale. E noi abbiamo bisogno di un mondo diseguale, in cui l’acqua dei fiumi possa scorrere, gli alberi crescere, e Achille raggiungere le tartarughe”.
L’effetto dell’arcivernice scompariva in fretta, come Ramon aveva già ben capito. Il Maestro si rarefaceva in un luccicante pulviscolo di molecole a mezz’aria, sempre più evanescenti. Ramon aveva imparato che c’è nulla e nulla, che c’è un nulla fisso nei suoi ferrei legami, su cui si stende il decreto eleatico di intangibilità e di ineffabilità, guai toccare il suo frutto avvelenato, peggio della mela suggerita dal serpente; e c’è un nulla più innocuo, più plasmabile, che brucia ma non fa male; e decise in cuor suo che doveva subito leggere “Il Sofista”.
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Note bio:
Maurizio Matteuzzi, insegna Filosofia del linguaggio, Teoria e sistemi dell’Intelligenza Artificiale e Filosofia della Scienza presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna. Studioso poliedrico, ha rivolto la propria attenzione alla corrente logicista rappresentata da Leibniz e dagli esponenti della tradizione leibniziana, maturando un profondo interesse per gli autori della scuola di logica polacca (in particolare Lukasiewicz, Lesniewski e Tarski). Lo studio delle categorie semantiche e delle grammatiche categoriali rappresenta uno dei temi centrali della sua attività di ricerca. Tra le sue ultime pubblicazioni: L’occhio della mosca e il ponte di Brooklyn – Quali regole per gli oggetti del second’ordine? (in «La regola linguistica», Palermo, 2000), Why Artificial Intelligence is not a science (in Stefano Franchi and Güven Güzeldere, eds., Mechanical Bodies, Computational Minds. Artificial Intelligence from Automata to Cyborgs, M.I.T. Press, 2005). Ha svolto il ruolo di coordinatore di numerosi programmi di ricerca di importanza nazionale con le Università di Pisa, Salerno e Palermo. Fra il 1983 e il 1985 ha collaborato con la IBM e, a partire dal 1997, ha diretto diversi progetti di ricerca per conto della società FST (Fabbrica Servizi Telematici, un polo di ricerca avanzata controllato da BNL e Gruppo Moratti) riguardo alle tecniche di sicurezza in informatica, alla firma digitale e alla tecniche di crittografia.
Maurizio Matteuzzi