L’arcivernice: Un altro elogio della follia (ventiduesima puntata)
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I pensieri di Giulia sono scossi dalle riflessioni di Edgar Morin sulla follia, decide dunque di cercare risposta nell’Arte e riporta in vita, con l’arcivernice, Marcel Duchamp.
“La follia è parte della condizione umana: è solo il culto della ragione e dell’ordine, che non accetta questa verità. Ma è proprio quel culto, ad essere demens, poiché la parte irrazionale di noi non è distruttrice o asociale: genera invece la tenerezza, l’eros, la gioia…”
Mi stavano aprendo molti confini le parole fatate del vecchio Edgar Morin. La sua frase fermentava nell’Aula Magna di Santa Lucia, e forse in tutte le nostre menti. In quel momento, in silenzio, stavamo forse tutti provando a capovolgere il senso comune.
Dunque è nel dialogo poco giudizioso tra ordine e disordine, tra la misura e l’eccesso, tra la parte sapiens dell’uomo e quella demens, lì si troverà la creatività? Ma in questi tempi, anche l’immaginare è difficoltoso. E in questi tempi il disordine appare una minaccia.
Sento che le parole di Morin sono perfette. Credo che a volte nella persona “qualcosa” voglia raggiungere i propri spazi interni meno spiegabili; si infiltra, evitando con cura i nuclei razionali. E sembra non volere spiegazioni né consolazioni.
Soprappensiero, cammino lentamente verso la stanza di Ramon, attraversando quel corridoio buio dove non riesci mai a estraniarti del tutto dall’odore forte di effluvi di cucina e di risciacquo di piatti. Se penso adesso alla follia umana, mi viene in mente solo un nero e untuoso gorgo di lavandino.
Ma non è un buco nero, la follia. È forse invece tra le poche entità davvero piene e trasparenti esistenti nell’uomo.
Se è vero che la follia spesso è gioiosa anarchia, è perché forse l’anomalia ti compensa? È la risorsa che inventa un territorio diverso quando quello vero è diventato invivibile? È l’atto creativo, dunque, che permette di vivere? Con un brivido nuovo che sembra mi colpisca come un fulmine, e con gesti portati dallo stupore per lo scostamento dall’immagine di me che mi ero costruita, spennello con furia l’Arcivernice.
Marcel Duchamp è qui, e sta abitando forse nella stanza. Ma certamente sta abitando in me.
“Togliamo alle persone la follia che le attraversa, e abbiamo queste società di Zombi” mi dice lui leggendomi il pensiero. Io so che si ritiene che persino le aree cerebrali di chi soltanto fruisce l’irrazionale, specie quelle connesse alle emozioni, si attivino molto di più, di fronte a qualche folle anomalia, davanti alle imperfezioni piuttosto che alle performance senza difetti.
L’esecuzione “sbagliata” emoziona, mentre quella perfetta perde efficacia. Come il tic tac dell’orologio: non lo senti più.
“L’errore, il caos, sono elementi artistici, Maestro, ma ciò che se ne trae in insegnamento, è folle o è razionale?”
“Come ha scritto Apollinaire nel 1913, si tratta di elementi la cui percezione non è ancora divenuta una nozione.”
“Diventerà poi dunque un canone?” Gli chiedo. Ma so che la follia si accetta solo se questa anomalia, questo mondo diverso, se questo canone in divenire viene riconosciuto come Arte. Solo allora, ha il consenso sociale, altrimenti rimane un gesto eccentrico, è il buco nero, allora il gesto è solo folle. E la persona è inadatta, inadeguata. Pazza. La società in questo caso si spinge a condizionare l’indisciplinato, agisce su di lui per conformarlo man mano, e sempre più energicamente, per fargli entrare in testa idee che contrastino le sue immaginazioni.
“La società non è emancipata, Giulia, e vi impedisce di scaricare le vostre espressioni anomale, mentre le applaude e le pretende da noi artisti. Noi, unici usciamo vittoriosi dal caos che altrimenti ci avrebbe inghiottiti!”
Rimango un attimo pensosa, e poi azzardo in un sussurro: “È un genio pazzo ad esempio John Cage, quando illogico attacca alle corde di un pianoforte, meglio se quelle di un mitico Steinway, gli oggetti più disparati. E quelle corde nobili si torcono, sotto le viti, sotto i pezzi di plastica, i tappi di bottiglia; e le note ne escono snaturate, ma dense di nuove possibilità timbriche, sonorità aggiuntive. È l’elemento umoristico demolitore e aleatorio che vi accomuna, Maestro?”
Lui non risponde, ma assorta, guardando il vuoto, continuo a pensare: curiosità nutrite di intelligenza vigile, personalità ardite, mosse da indipendenza di giudizio. Disubbidienza. Pensieri elastici, liberi da un galateo e da qualsiasi legaccio.
“Usciremo, Maestro, da questa Storia convenzionale paralizzata, usciremo dal buio fondo della notte di Heidegger, potremo meritarci un territorio con gusti artistici dai grandi confini, con grandi spazi, gli odori, i piaceri?”
Sollevo gli occhi e Duchamp è sparito dalla stanza. Oppure chissà, non c’è mai stato.
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Giulia Jaculli