L’arcivernice: Non ci sono più quei bei cretini di una volta (già rimpianti da Sciascia) (sessantesima puntata)
“Voglio dire, Maestro: si può immaginare la vita, come fa Borges, un 'jardìn de senderos que se bifurcan'... ”. “Sì, è la coscienza, Giulia, che questa vita attuale, è vero, procede per continue biforcazioni. E la consapevolezza che forse ognuna delle strade porta verso dimensioni possibili che nella realtà potrebbero coesistere. Così la simultaneità. Il desiderio di capire la realtà scomponendola e riassemblandola”.
È questo di lei che non mi va. La sua faccia da apatico batrace che all’improvviso si anima, che si affaccia di colpo alla guardiola. Quando le arrivo davanti sembra spararmi fuori ancor di più con due molle i suoi occhi sporgenti. A quel punto vorrei indietreggiare, ma tanto vale… così continuo veloce, con passi concitati, quasi in corsa. “Ramon è uscito, è inutile che sali”.
Questa ingiunzione non mi garba molto; poi quella faccia e la sua voce resteranno nel mio registro sensoriale ancora un po’, per tutta la durata del tragitto, dal portone d’ingresso fino alla scala; ma già anche dentro, in casa di Ramon. Tanto così che temo, con orrore, che si unisca anche lei, là, un po’ sospesa, in uno stonato accorpamento, un esecrabile dialogo a tre col personaggio.
Dato che proprio sto per spennellare
un qualche grande, sommo luminare…
Quindi, mi sono convertita! abbandonata anch’io del tutto all’Arcivernice? Ultimamente mi vengono anche fuori queste assurde rime baciate…, in una specie di sterminio della mia intelligenza.
Sì. in questa corrusca primavera e nelle sue improvvise schiarite, l’ombra di Pier Lambicchi mi governa con l’incantesimo di un mito:
“1. Pier Cloruro de’ Lambicchi
tra matracci e storte e bricchi
studiò tanto che, felice,
ritrovò l’Arcivernice:
2. se i ritratti egli spennella
ricoprendoli di quella,
le persone pinte allora
tornan vive per un’ora!”
Voglio anch’io questo, adesso? Incredibile, mentre online e in tv le parole fanno un rumore, hanno un suono che sembra così diverso. Ma è proprio poi tanto diverso? Mi viene in mente il concetto di “tempo” nella musica: assume significati nuovi nel corso del XX secolo anche grazie alle teorie di Husserl e Bergson sulle composizioni che si sottraggono alla concezione lineare del tempo, propria del linguaggio tonale. Ma a quel linguaggio tonale ci hanno talmente abituati che è diventata una nostra forma mentis.
Il tempo della musica, quello dell’arte in genere, aveva chiesto a un tratto una forma indipendente. L’autonomia dei flussi spazio-temporali. Il rovesciamento, la scomposizione, l’apertura di forme. Il Cubismo, ad esempio, ha scomposto modelli esistenti e ne ha utilizzato i frammenti per creare mondi nuovi.
“Nella tendenza alla crescente complessità di tutta la scrittura artistica, si scorge il rispecchiarsi della complessità e molteplicità della realtà attuale?” Parto perciò con la domanda, e decido, ancora un po’ timorosa, di rivolgerla a Lui, Pablo Picasso:
“Voglio dire, Maestro: si può immaginare la vita, come fa Borges, un ‘jardìn de senderos que se bifurcan’… ”
“Sì, è la coscienza, Giulia, che questa vita attuale, è vero, procede per continue biforcazioni. E la consapevolezza che forse ognuna delle strade porta verso dimensioni possibili che nella realtà potrebbero coesistere. Così la simultaneità. Il desiderio di capire la realtà scomponendola e riassemblandola”.
Polistratificazioni, dunque, politemporalità… Penso ad Apollinaire, penso a Luigi Nono, e penso a Jean Cocteau e al suo sogno di sentire la musica delle chitarre di Picasso.
“Un numero infinito di attimi vissuti simultaneamente, dunque, Maestro? È una sfida gioiosa, ma anche piena di risentimento”.
“L’artista, per ogni forma d’arte, se vuole mai sperare di rendere questa complessa realtà, deve poter indurre la fluttuazione della prospettiva. Deve trovare il mezzo per creare la sensazione di quei livelli diversi di profondità. Modelli controintuitivi, forse, che la retorica gestuale, comunque, non è più in grado di mostrare”.
La stratificazione di livelli; le prospettive simultanee, dunque. Bisognerebbe che il tempo scoppiettasse, scorresse non solo orizzontale, ma anche verticale e obliquo.
“È stato un grande sforzo, infatti”, continua Lui, il Maestro, come se avesse letto il mio pensiero: “una strutturazione che a un tratto si è sentita l’urgenza di compiere per sottrarsi alla forza del tempo cronometrico, spazializzato che volevano, che ancora vogliono imporre. Ma tu potrai sperare di vedere che anche da questa apparente complessità di linee emergeranno percettibilmente, piano piano, regolarità e coerenze, e perfino una certa misura di prevedibilità”.
“La prevedibilità, Maestro, quello che non inquieta e non stupisce, che si legge tranquillamente come l’effetto di una causa: il suo accadere dev’essere previsto, perché in quanto previsto, non spaventi”.
In un lampo di luce vedo ancora più chiaro che quella dell’artista è una straordinaria missione storica: dunque si ristrutturi il pensiero, la concezione lineare del tempo, si scompongano forme ancora esistenti, con una frantumazione violenta, distruttiva. Idee spericolate, poiché anche i poteri forti hanno messo in opera i loro mezzi di distruzione, tanto che la massa servile non ha un suo tempo e un suo pensiero autonomo, libero.
“È la funzione dell’artista, Giulia, che non è quella di educare la società, ma di rap-pre-sen-tar-ne le contraddizioni e i conflitti, testimonianza anche crudele di esperienza”.
“Già”, gli sussurro sottovoce, emozionata “è per questo motivo che durante l’occupazione tedesca di Parigi, ad alcuni critici tedeschi che ti parlavano di Guernica, tu hai detto amaramente:
“non l’ho fatta io, l’avete fatta voi”.
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Immagine in testata di Kemal Y. / Flickr (licenza free to share)
Giulia Jaculli