L’arcivernice: ma che tipus! (ventisettesima puntata)
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“Le mie teorie non volevano portare a sottovalutare in assoluto le capacità autodecisive in favore di un rigido fatalismo biologico”. Giulia incontra Lombroso, lo studioso fondatore dell’antropologia criminale.
Camminando, continuo a domandarmi che senso abbia per una come me l’Arcivernice.
Certo il pensiero umano è ancora misterioso. Tutti i circuiti del cervello sono un po’ come questa vecchia dimora che ospita Ramon, densa di voci dietro le porte scricchiolanti, piena di corridoi lunghi con le pareti annerite e spaventosi ritratti appesi, di cui a malapena, in quell’odore umido, si riconoscono i contorni. Vaghi sorrisi guardinghi e visi torvi che digrignano i denti. Gli sguardi spiritati come di uno che quantomeno ha le scarpe strette. E occhi risentiti chiedono di fulminare il mondo.
Ecco, di questi tempi almeno avrebbero ragione.
Nell’ombra di quei corridoi e dagli sfondi neri dei dipinti con le facce tremende che escono dal buio, certo sembrerebbe prevalere il sentimento della crudeltà.
Mi torna in mente il passo di Cervantes: “‘Ma’ chiese Sancho ‘da che riconosce che il mio padrone è pazzo?’ ‘Eh, signore’ rispose il curato gioviale ‘non vede che non ride mai?’”.
Ecco, forse la frase oggi andrebbe ribaltata.
Le pallide espressioni d’altri secoli, corrucciate sulle pareti, sembrano lì a mezz’aria. O nella formalina dentro un vaso di vetro. Come al museo Lombroso.
Bene, per lui i delinquenti ce l’hanno scritto in faccia, ma anche i geni. Così sarebbe facile…
Se ti cali là dentro, in questo odore di buio, facce che possono essere vittime o carnefici, però non certo querule, ma taciturne. Sembra che a lui, a Lombroso, le facce invece raccontassero qualcosa, storie, e turpi per lo più. Mentre a noi proprio non dicono nulla. Da quei ritratti come persone in fila sottovetro, non potremo mai avere risposte. Resta una zona grigia, un territorio inesistente, che potrebbe essere invece produttivo. Quei ritratti contengono storie vissute nel passato. Dovremmo assistere, solo, a quelle storie, secondo i canoni aristotelici, con terrore e pietà?
Assistere. In una sua puntata, Ramon parlava della fissità del rimanere semplici spettatori. E infatti parlava di morte.
Bisognerebbe entrare nello spirito giusto, togliere quelle facce da quel buio, poi però a volte ribaltare ogni cosa, come fa Dylan Carlson con la sua musica; ed ecco forse allora: “Gli angeli dell’oscurità e i demoni della luce”.
Certo l’intuizione può funzionare, occorrerebbe però uno spazio piccolo, di poche note, e non, come si fa sempre più spesso, suonare veloci più note possibili. Suonare meno note, ma più espressive. Note pensate per un orecchio che ascolti. Ma in questi luoghi attuali rumorosi, sentire e farsi sentire è sempre più complicato. In queste reti, in questo spazio sconfinato con tutte quelle facce, sembra sempre che siamo tutti connessi, però non riesci mai a riallacciare trame comuni.
La suggestione dei luoghi. Vittima dei miei pensieri, rasento il muro di fronte verso la cameretta rustica di Ramon, provando a rendermi invisibile e con un senso assurdo di vergogna. Dubito, in quei passaggi, di conservare un contegno dotato di un po’ di dignità.
La donna con gli occhi arrossati scantona ogni volta dall’ombra della guardiola per dirmi che Ramon non c’è ancora. Credo che mi rivolga la parola solo perché io non m’illuda di essere passata inosservata.
Non posso non pensare che poi sentirà delle voci tonanti dietro la porta chiusa dialogare con me.
Dentro, il mucchio di libri impilati sul tavolo, illuminati dalle strisce di luce che filtrano tra le persiane. Li sfioro con le mani, ma questa volta qualcosa mi impedisce di aprirli. Le pagine si incollano le une sulle altre fino a formare una poltiglia densa.
Dopo un istante vuoto nelle mie strutture cognitive, dalla poltiglia, come plasmata da dita sicure, si forma una figura umana che non riconosco.
La figura sbotta immediatamente, quasi fosse stata compressa fino a quel momento, per qualche secolo:
“Altri, non io, si preoccuparono solo di stabilire una rigida dosimetria che ha poi condizionato certi comportamenti, ha ispirato persino qualche riforma troppo sbrigativa nella legislazione!”.
“Come si fa”, gli domando smarrita dato che intanto l’ho riconosciuto, “quando succede che dei processi eccentrici, scivolosi, con una libertà forse troppo spavalda per il proprio tempo, ci slittano altrove, verso interpretazioni forse immaginose? Rischi così di diventare ‘l’inventore stralunato’ di Disneyland, o ‘lo scienziato pazzo’”.
“Le mie teorie non volevano portare a sottovalutare in assoluto le capacità autodecisive in favore di un rigido fatalismo biologico”. Così Lombroso sembra cercare da me un’assoluzione.
“Ho persino richiesto che alla mia morte venisse effettuato sul mio corpo lo stesso trattamento autoptico, per dimostrare che la scienza, come la morte, ignora le differenze sociali”. Continua infatti. Come il barone di Münchhausen: prova a tirarsi su dalle sabbie mobili tramite il suo stesso codino.
Avverto ancora in lui l’ansia dello scienziato, della rivelazione che svela il senso dell’altro. Lui stava certo interpretando attentamente sulla mia faccia il mio pensiero, cercando di leggere in ogni minima mia lievitazione fisiognomica.
“Quest’ansia”, mi dice poi, azzeccandoci,“si riproduce in ogni viva intelligenza”.
Il tono della sua voce si sta facendo via via più roboante. E mi balena in testa la donna dagli occhi arrossati e il suo orecchio enorme appoggiato alla porta.
“Forse bisogna solo intendere che non è necessario tradurre in certi termini rigidi di proporzioni e rapporti”, tento timidamente, “ma qui è il tema stesso a essere troppo scivoloso e ambiguo”.
“Così sono il classico agnello sacrificale, intorno al quale in tanti stanno ancora continuando a pasteggiare!”
“Tanto che sembra che una sua salvazione sia impossibile”.
“Me ne rammarico. Ma lo scienziato ha il dovere morale del maestro di scuola? E comunque io ho aperto un’autostrada nella Scienza, da me infatti nasce la Criminologia!”
È vero, accade anche, a volte, che si riesca ad aprire una porta con una chiave sbagliata e rugginosa. Intanto, un’aria fredda, e forse la mia stessa ridda di pensieri dubbiosi, mi sfiorano la pelle, e in un dignitoso, virile svolazzo, con una specie di sospiro rassegnato e convulso, la figura si ridisegna veloce su un foglio, dove ogni suo elemento si ricompone. Poi, come una carta da gioco nelle mani del prestigiatore, il foglio torna a nascondersi, risucchiato nella pila di libri.
Resta però nell’aria ancora un’ombra, resta una macchia, ineffabile, ambigua, persistente.
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Giulia Jaculli