L’arcivernice: Proust, ad esempio (sessantaseiesima puntata)
“L'odore già dell'inverno mi entra nelle narici dalla finestra aperta. Il ricordo di inverni mi viene forse dai primi profumi delle caldarroste. Ricordare è creare [...]”
“Proust, ad esempio”, aveva detto a lezione il professore, “come Balzac, del resto, raccontavano i mali del mondo occidentale attraverso il filtro delle classi abbienti”.
Il sole. Lo sto già allucinando come un bene impossibile, perduto: è autunno e tutto inizia a venire risucchiato in un gelido, untuoso gorgo di lavandino, dove poi non è facile ripescare qualsiasi cosa ci sia caduta dentro. Oggi anche le mie letture vecchie e nuove, frugando in questo fondo limaccioso, mi sembrano superflue; un panorama intellettuale che prima era, come per Wittgenstein: “lo sfondo sul quale distinguo tra vero e falso”, e adesso sembra un gioco senza regole che ognuno può giocare a modo suo. Come si fa ancora a vivere al fianco di certi miti da museo. Possiamo sentirci autorizzati a usarli solo per il piacere furbetto del citazionismo.
Cosa volete, i tempi si sono fatti duri, ma se a “calarsi le paste” … che se poi sono queste Madeleine, è tutto senza postumi, si rischia solo, casomai, di cadere nel flusso di coscienza. Sicuro è un buon percorso di prevenzione: non ti dà dipendenza, e non ti abbassa la serotonina. E certo non distrugge la creatività.
La figura di Proust è pigramente adagiata sulla pagina, come su un vecchio canapé di quelle abitazioni sempre in penombra. Lo sguardo qui ne rivela l’umanità, la sua fragilità e la sua forza; sembra un sopravvissuto alla fine del genere umano. Dovrò “fare il bianco” del mio mondo per lasciarlo entrare.
“Montaigne sosteneva, Maestro, che ‘il pregio dell’anima consiste non nell’andare in alto, ma nell’andare con ordine’”. Ad ogni mia pennellata furibonda, lui, Marcel Proust, si era costruito piano piano, plastico, con l’Arcivernice, fino a sembrare fatto di sostanza umana. “La sua scrittura invece, Maestro, naviga senza bussola, e sembra indizio di un respiro convulso”.
“Non vedo altra strada”, lui mi conferma col suo sorriso fragile, “per cogliere la verità. Ma anch’io comunque ho bisogno di compiutezza formale”.
“Il suo narrato, con i verbi molto spesso coniugati all’imperfetto, ti dà il senso di un tempo sempre aperto, tiene il lettore quasi senza respiro, ad annaspare in una sospesa medietà”, azzardo piano. “Meglio così, comunque, che essere braccati dall’orrore di perdere il passato per sempre. Però la risalita sembra impossibile”.
La musicalità delle sequenze – continuo poi a pensare – elementi, passaggi. Nel brano, con rarefazioni improvvise e poi addensamenti, e anche cambiando la tonalità continuamente, ne viene fuori un senso di disorientamento. Come quando nel sistema tonale di una scala in do minore si contrappone, in un processo continuo, la gaiezza del modo maggiore: ti dà anche, forse, malinconia e rimpianto.
“Compito del narratore è scrivere per dare alla vita un significato, lo sai Giulia. Però forse la vita non ne ha nessuno. Mi sono abbandonato, niente poteva trattenermi, e la scrittura è venuta, si è scelta lei per me”.
La scrittura di Proust scorre con discrezione nei rivoli ramificati del tempo. Sì, l’obbedienza all’ordine, alla linearità della forma, è una misura, un codice a cui non ci si sente, a volte, di assoggettarsi, di restare braccati, hai voglia a volte di scompigliare le cose che erano prima ordinate e composte.
Ma il suo capolavoro sta sempre lì a dimostrare che un romanzo con più rigore non avrebbe potuto essere scritto.
“Un battitore libero, Maestro?”
L’odore già dell’inverno mi entra nelle narici dalla finestra aperta. Il ricordo di inverni mi viene forse dai primi profumi delle caldarroste. Ricordare è creare; quella figura un po’ snob sembra ottenuta con effetti in 3D, una raffinatezza degna della migliore simulazione tecnologica.
Ma se è così basta premere un tasto o due per farla scomparire.
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Immagine in testata di www.myfruit.it / Flickr (licenza free to share)
Giulia Jaculli