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Ancora (!?) sui nativi digitali

Pubblicato il: 14/12/2012 16:57:28 -


Il docente si è trovato a perseguire la “mission” metodologica (il primato sequenziale e analitico) misurandola con la “diversità” degli stili individuali dei “nativi digitali” e dovendo ricomporre, nella varia strumentazione didattica, un accettabile equilibrio. La domanda, quindi, è: come ricombinare sensatamente questi approcci in vista della migliore efficacia nell’apprendimento?
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Ho seguito con attenzione i numerosi contributi che sul tema si sono susseguiti su queste pagine (in particolare, i preziosi interventi di Allega).

Condividendo in gran parte le numerosissime osservazioni e spunti in essi contenuti, non vi torno nello specifico, se non per sottolinearne la dimensione giustamente “problematica” che ogni buon osservatore ha sottolineato nei suoi contributi (dalle notazioni relative ai processi cognitivi a quelle relative alle “emozioni digitali”).
Vorrei solo riprendere alcune osservazioni a partire da una battuta (di cui rivendico il copyright: è contenuta in un report di monitoraggio del progetto Cl@ssi 2.0, da me redatto e consegnato molti mesi fa al committente). Il termine “nativi” nella sua efficace metafora contiene (come tutte le metafore: qui sta la loro ricchezza, ma anche il loro rischio) un’ambiguità che necessita di essere risolta, per proseguire e approfondire l’analisi.
Sostenevo, in quella “battuta”, che nella storia dell’umanità i “nativi” sono sempre stati gli “sconfitti”: massacrati, fatti schiavi, confinati in più o meno confortevoli riserve… questo almeno nella storia dell’Occidente. Sicché quando diciamo “nativi digitali” dovremmo impegnarci a chiarire quali “intenzioni abbiamo” verso di loro, o a riflettere sugli “impliciti” che la scelta della metafora contiene. Naturalmente gli impliciti coprono una gamma assai vasta: si va dalla “mitologia” positiva del “buon selvaggio”, all’attenzione partecipata del “buon antropologo”, alla “buona tolleranza” verso la diversità; congiuntamene alla (ma questo ha la portata della realtà storica) pratica dello sfruttamento e della schiavitù. Tale impegno vale tanto più in quanto ci occupiamo, in questa sede di confronto, non tanto del manifestarsi di competenze nuove e diverse in “adulti” in contesto di lavoro, di vita sociale autonoma o professionale, o di formazione compiuta. Ma di “cuccioli” in via di formazione e di percorso, più o meno precoce, verso l’adultità e l’autonomia personale.
È questo (deve essere questo) lo sguardo specifico di chi si occupa di formazione, verso l’intera fenomenologia “digitale”: da come e quanto si trasformano sia i processi cognitivi, sia quelli di socializzazione, di assunzione di responsabilità, di costrutti etici, di “vissuto” delle emozioni e di rielaborazione del vissuto emozionale.

Naturalmente è sempre valida l’esortazione a superare la doppia tentazione degli “apocalittici” versus gli “integrati”, anche se ne abbiamo molti esempi in una pubblicistica alimentata anche da autorevoli interlocutori. Ma qui c’è qualche cosa di più specifico. Indico, tra tante, due questioni esemplari.
Il “digitale” (attraverso i suoi strumenti di accesso, la sua pervasività, le modalità di processamento dell’informazione, etc.) richiede un approccio cognitivo di tipo simultaneo-sintetico e contemporaneamente ne sviluppa enormemente le potenzialità e l’efficacia produttiva che retro-agiscono in “rinforzo” dell’approccio stesso e delle abilità e competenze necessarie a praticarlo (per esempio l’interazione visuale, il processamento per “frames” e non per “script”, l’accorciamento radicale del processo stimolo-risposta, l’accorciamento altrettanto radicale del rapporto errore-ricerca di alternative-correzione etc.).
Vorrei ricordare che tale approccio non è “nuovo” ed esclusivo del mondo digitale. È costitutivo del funzionamento del cervello umano, compresente nelle diverse modalità di rapporto tra apparati nervosi e sensoriali e realtà “esterna”, nella determinazione etologica, ed è presente ed esplorato in modo esemplare nella stessa storia dello sviluppo della conoscenza umana nelle sue diverse fasi. Caratterizza costitutivamente, cioè, sia ogni singolo soggetto umano sia la storia della specie. Ovviamente tale approccio è parallelo (affermazione di comodo: in realtà è variamente “intrecciato”) con l’approccio sequenziale e analitico. L’approccio che scompone, divide, cataloga, confronta, ricompone, rintraccia ricorrenze e “leggi” generali, rielabora teorie interpretative con (variabile) capacità predittiva. Anch’esso è “costitutivo” sia del soggetto che della specie: è inscritto nel funzionamento stesso degli apparati nervosi e sensoriali e nei processi di memorizzazione e nella determinazione degli schemi comportamentali. Ed è presente nella storia del pensiero umano e nella sua evoluzione.
Per una sintesi che meriterebbe un più lungo percorso analitico: il “logos” è il sostantivo del “legein”. La conoscenza (i significati costruiti) è il prodotto di una processualità (la significazione) che declina approcci diversi e complementari, variamente combinati sia sul substrato originale di ciascun soggetto, sia nelle diverse fasi di sviluppo della civiltà dell’uomo.
I nostri lontani progenitori cacciatori e raccoglitori svilupparono una conoscenza botanica e zoologica che si confrontava con migliaia di specie vegetali e animali, in un’interazione diretta e immediata con la realtà e con una sua rappresentazione (e memorizzazione) “oggettuale”.

Diecimila anni di sviluppo a partire dalla rivoluzione neolitica e dall’ “invenzione” dell’agricoltura hanno ridotto progressivamente tale conoscenza diretta a poco più di una decina di specie animali e vegetali (che, per altro, costituiscono ormai oltre il 90% della biomassa del pianeta: gli entusiasti sostenitori della “biodiversità” spesso dimenticano il dato..).
Bisogna aspettare Linneo per dotare l’umanità di uno strumento di conoscenza altrettanto ampio di quello praticato dai “nativi raccoglitori e cacciatori” e basato non sulla rappresentazione oggettuale ma sulla identificazione di repertori, tassonomie, individuazione di costanti e combinazione di elementi semplici… insomma su una base sequenziale e analitica. Uso questo esempio perché mi sembra esemplificare opportunamente le affermazioni precedenti sulla “compresenza” di diversi approcci al sapere ed alla conoscenza nella storia dell’umanità.

Il dominio o l’egemonia dell’uno sull’altro dipendono fortemente dai caratteri delle stesse fasi storiche e dalle modalità concrete di “appropriazione” della natura da parte dell’uomo, e dunque dalla rispettiva efficacia nel promuovere tale “appropriazione”, e non tanto dall’ “efficacia cognitiva”. (I raccoglitori e cacciatori, sotto tale profilo, ne sapevano certo “di più” di Linneo…).
Il “dominio” e il “primato” di quello che abbiamo chiamato approccio sequenziale e analitico contrassegna lo sviluppo razionalistico e scientifico, dal protoilluminismo dell’Atene del IV e V secolo, alla rivoluzione industriale. Tale primato non ha mai negato o “sostituito” l’altro approccio, ma spesso lo ha relegato a saperi “particolari” come quelli artistici e creativi, e guardandolo sempre con qualche sospetto: rammentate la diffidenza platonica per la poesia e la musica? La scuola (veniamo a noi) si è costituita e costruita, nella sua funzione sociale di riproduzione dell’enciclopedia, dei saperi e significati ereditati e codificati, (e dei comportamenti e dei modelli etici) identificando nell’approccio sequenziale ed analitico il “proprio” metodo. Ciò vale per tutti i sistemi di istruzione della cultura occidentale, ma in particolare la “cultura scolastica” nazionale è esemplare per la sua identificazione con l’approccio sequenziale e analitico. Quello è il suo metodo e custodirlo è la sua missione.
Ma ogni insegnante attento e sensibile si è sempre trovato a misurarsi, nel suo lavoro quotidiano, con soggetti che processavano l’approccio alla conoscenza in modalità diversificate secondo questi due modelli, secondo diversi “stili cognitivi” personali. Si è trovato cioè a perseguire la sua “mission” metodologica (il primato sequenziale e analitico) misurandola con la “diversità” degli stili individuali e dovendo ricomporre, nella varia strumentazione didattica, un accettabile equilibrio.
Ciò che abbiamo di fronte oggi, dunque, non è una “rivoluzione”, almeno nel senso che non ci si presenta qualche cosa di incognito sotto il profilo dei diversi approcci cognitivi. Ciò che si presenta come una vera e propria “nuova fase” della civiltà consiste invece nel fatto che il “digitale” (i suoi strumenti, le sue “protesi individuali”, i “processamenti” dell’informazione che gli sono propri) conferiscono potenza inedita (e inusitata) all’approccio simultaneo e sintetico. Tale “potenza” non è immediatamente esprimibile in termini di ”efficacia” dei risultati (esattamente per le stesse ragioni per cui gli antenati raccoglitori ne sapevano di più dei “nativi razionalisti” o di Linneo) ma va indagata in termini specifici nei suoi rapporti con le “potenzialità” cognitive connesse con i processi di appropriazione della natura (in primis ma non esclusivamente con i caratteri dello sviluppo economico). Insomma siamo di fronte ad una “rivoluzione” che attiene al “legein”; al processamento della conoscenza. La domanda senza risposta (per ora) riguarda il “logos”.

Non è discussione che si possa affrontare qui ma ha ragione Allega a sostenere che il rapporto tra digitale e analogico è molto meno “semplice” di quanto si faccia apparire in certe elaborazioni. Digitalizzare significa condurre alle estreme conseguenze un processo di scomposizione e dicotomizzazione della realtà, fino a raggiungere elementi e componenti discreti, in sé privi di “regola e significato”; e poi ricostruire il processo bottom up, ricostruendo una rappresentazione della realtà di partenza, dominandone (o determinandone?) in tal modo le “regole e il significato”.
La potenza della strumentazione progressivamente prodotta dalla “rivoluzione microelettronica” consente di condurre il processo di scomposizione in una dimensione micro mai esplorata (pur mantenendone la dimensione “finita” e discreta) e di produrre “ricostruzioni” apparentemente “continue” nelle quali la “grana discreta” è indistinguibile dalla realtà continua. Appare “uguale” a quella percepita analogicamente. (Ma le differenze ci sono, eccome!… per esempio l’infinito appartiene alla concettualizzazione, ma è estraneo al digitale… E vi pare poco?).
Insomma, ciò che usualmente viene indicato come una “realtà virtuale” si pone come indistinguibile da quella “reale”. Poco importerebbe qui discettare sul significato di virtuale e reale, se non fosse che il processo di ricostruzione artefattuale che presiede e guida il parallelo processo di appropriazione della natura non deve mai essere considerato “gratuito”. È al contrario guidato da finalità e scopi, come ovvio. Ma è altrettanto ovvio ricordare che essi non sono necessariamente né tanto meno esclusivamente identificabili con quelli dell’aumentare la padronanza di conoscenza e sapere dell’uomo. (Insomma la rivoluzione tecnologica ha sicuramente una origine ed una ricaduta “filosofica” ma non si identifica con la mission della filosofia). Come si è visto, contraddittoriamente, la “digitalizzazione” realizzata promuove e potenzia l’approccio simultaneo e sintetico che ci fa narrare di ”nativi digitali”; ma la realizzazione della digitalizzazione è processo che spinge a livelli un tempo inimmaginabili la dimensione sequenziale e analitica.

Potremmo (e dovremmo) discuterne a lungo, di tutto ciò sotto il profilo generale: ma la domanda specifica (certamente di natura filosofica), per quanto attiene alla scuola (ai cuccioli in formazione) è assolutamente determinata.
Come ricombinare sensatamente i due approcci in vista della migliore efficacia nell’apprendimento? Ciò che ogni bravo docente cercava di fare nel ricombinare assennatamente i diversi “stili cognitivi” dei suoi alunni (personalizzando e mettendo in valore le relative efficacie) si costituisce oggi come un problema che investe l’insieme degli alunni nel loro rapporto con strumenti, processi, approcci che danno (proporzionalmente) potenza superiore ad “una” delle modalità. Con la complicazione (scientifica e culturale), che si tratta di quella tradizionalmente più lontana dal “metodo” della scuola.
La domanda diventa allora: poiché la “potenza” acquisita dalla “rivoluzione digitale” non è immediatamente ed automaticamente traducibile in “superiorità” cognitiva, e in particolare in “accertata pertinenza” ai processi di formazione che riguardano i cuccioli, come e dove reperire l’equilibrio ottimale tra approcci diversi recuperando per ciascuno le relative potenzialità per garantire l’acquisizione di effettiva “padronanza”?
Ci sono questioni “teoriche” sottese a tale domanda. Piaget, Vitgoskj, Dewey, Montessori (et al.), a fronte della rivoluzione digitale dovrebbero probabilmente riscrivere alcune parti delle loro opere che continuano ad ispirare il lavoro nella scuola. E dunque quest’ultimo si trova a doversi misurare con una necessaria “innovazione” filosofica capace di ristrutturare le fonti teoriche. Contemporaneamente è alle prese con la necessità di reperire una “filosofia della prassi” capace di tradursi nella operatività quotidiana.
Sia l’una che l’altra questione richiedono molto di più di una varia “pubblicistica” che qualche anche autorevole “maitre à penser” diffonde nel mondo della scuola, variamente interpretando le “categorie” degli apocalittici o degli integrati. Richiedono invece sviluppo di ricerca. Da quella di base dei laboratori di psicologia, di scienze cognitive, di neuroscienze, di Intelligenza Artificiale, a quella che inevitabilmente assume la dimensione del laboratorio di massa di una scuola che abbia deciso di aprirsi integralmente alle tecnologie digitali. (La ricerca educativa, sulla cui necessità di sviluppo sono già intervenuto su queste pagine) È in quest’ultima, nello scambio con la prima, che si struttura una nuova “filosofia della prassi” dell’insegnamento, capace di misurarsi con la “novità filosofica” dell’apprendimento nell’era digitale. Ed è a questa “filosofia della prassi” alimentata dalla ricerca che tocca il compito di rispondere alla domanda fondamentale: come ricombinare approccio sequenziale e analitico con quello simultaneo e sintetico che l’innovazione digitale sembra rendere dominante, non nell’esercizio professionale o nell’uso “adulto” degli strumenti, ma nella formazione dei cuccioli.
Che cosa considerare “fossile” (e lo è nel mondo professionale come l’uso del righello e della squadra per un moderno architetto) e cosa considerare comunque utile per l’allevamento dei cuccioli (imparare ad usare un compasso anche se “obsoleto” dal punto di vista professionale, per mantenere il paragone). Un aforisma molto in auge tra chi si occupa di “competenze” in contesto di impresa recita pressappoco “si può sempre insegnare ad un tacchino ad arrampicarsi sugli alberi, ma probabilmente è meglio assumere uno scoiattolo”. La crudeltà del suo realismo è certamente enfatizzata dal fatto che nei nostri schemi idealtipici assumiamo un’implicita gerarchia tra lo scoiattolo ed il tacchino, dimenticando che il tacchino sa fare cose che lo scoiattolo neppure immagina (per esempio tenere lontane le vipere dall’aia…).
Ma lo ricordo qui sia per rammentare “en passant” a tanti cultori del costrutto “competenze” l’origine economica di esso (del resto rintracciabile nella stessa bibliografia delle elaborazioni UE da cui proviene); sia, soprattutto, per ricordare che la “mission” della scuola è anche quella di provarci comunque ad insegnare al tacchino ad arrampicarsi.

L’apprendimento è come lo stretching: il soggetto è “tirato” verso ciò che non è o non è ancora. “Forma hominis juxta propria principia”, direbbe Tommaso contemplando inevitabili “potature” di allevamento. Nella formazione lo stile personale di ciascun soggetto è una risorsa fondamentale da interrogare per sfruttarne la funzione di incentivo all’efficacia dell’apprendimento; ma contemporaneamente la “formazione” procede sfidando il soggetto a misurarsi con altri stili e approcci, a prescindere da considerazioni “economiche”.
Se ciò è sempre vero e alimenta la vocazione “democratica” dell’insegnare (“insegnare tutto a tutti” di Comenius) lo è a maggior ragione oggi a fronte di un’innovazione che sembra modificare alla radice gli stili di apprendimento, non tanto creandone di nuovi, ma esaltando la “potenza” di una forma di processamento del pensiero, e dando a tale potenza il conforto che si vorrebbe “oggettivo” degli strumenti, e ipotizzando la riduzione a “fossile” o a “ammuffito metodo” dell’altra forma di processamento (quella sequenziale e analitica). Come “addestrare” i cuccioli dando loro padronanza di “tutti” gli approcci, combinandoli assennatamente.

Oggi tale combinazione è lasciata al “buon senso” professionale (risorsa preziosissima) dei docenti. Ma siamo solo agli inizi di un processo di trasferimento massiccio di tecnologia digitale entro le aule scolastiche, che probabilmente produrrà una rapida obsolescenza di modelli organizzativi, di immaginari e pratiche professionali, di classificazione del lavoro e di organizzazione di spazi e tempi dei processi di apprendimento, e finanche di tradizionali categorie di pensiero come “programmi di studio”, “discipline di insegnamento”, “curricolo”, e finanche “ordinamento”. Nessun effetto è automatico, neppure se la causa è un’innovazione tecnologica radicale. Ogni tecnologia ha sempre almeno un grado di libertà che attiene alle decisioni ed alle applicazioni. Ma, appunto, è una “libertà” da esplorare sia con ricerca che con conseguenti “sensate esperienze”.

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Franco De Anna

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