Link Education: competenze digitali e “digital emotions”
La comunicazione tra i nativi digitali si arricchisce della complessa interazione fra tecnologie digitali, soprattutto quando si parla di emozioni e relazioni.
Parlare di competenze digitali significa evocare un campo semantico equivoco, troppo spesso vittima di pregiudizi e fraintendimenti. Tutto sommato, a parte Prenski e qualcun altro, non è ancora ben chiaro “cosa siano”. O meglio, non è ben chiaro se le competenze digitali “sostituiscano” qualcosa, e in questo caso, “cosa”.
Una lista di competenze digitali è stata suggerita dalla Commissione europea (e ritoccata da diversi autori):
– la capacità di manipolazione fine, con tutte le dita della mano, compreso il pollice, da cui deriva una diversa abilità di coordinamento viso-motorio, abilità che li rende idonei a controllare a distanza e a interagire con destinatari anche spazialmente lontani;
– la capacità di lavorare mentalmente per immagini, cioè l’uso prevalente del pensiero visivo nei processi mentali e comunicativi;
– la straordinaria prontezza a cogliere e affrontare l’inaspettato;
– il controllo attentivo spaziale, e, soprattutto, dell’attenzione periferica;
– la capacità di affrontare l’inaspettato;
– il saper pensare in parallelo;
– una nuova socialità, che richiede nuove capacità cognitive, emotive e sociali.
Sono competenze decisamente diverse da quelle alfabetiche “classiche” (“literacy”, “numeracy” etc) e le une dovrebbero essere complementari alle altre. Ma Prenski, ad esempio, sostiene che le prime non avranno più bisogno delle seconde, altri che le prime sono trasversali alle seconde, altri ancora ritengono al contrario che le competenze alfabetiche siano essenziali a quelle digitali. Alcuni si avventurano in osservazioni ancora più esasperate. Per esempio ci si chiede: “Perché le competenze digitali sono così importanti? Non è forse vero che la struttura più ipertestuale, più reticolare, più complessa, per la sua articolazione, è il cervello umano?”. E ancora: “ Perché non concentrarsi su di esso invece che sulla sua digitalizzazione?”.
Potrebbe essere un tentativo di ricondurre il tema dal digitale all’analogico!
C’è effettivamente un po’ di confusione. Legittima, perché è un contesto complesso e in veloce evoluzione. Non solo, velocemente diretto verso non si sa cosa. Proprio perché non esiste un progetto sociale, un progetto politico all’origine di questa evoluzione.
L’economia s’impone sulle scelte politiche. La tecnologia s’impone sulle scelte sociali. Il digitale s’impone sulle scelte educative. Agli occhi del cittadino (non nativo digitale) sta accadendo, da tempo, l’inverosimile… tutto si è irragionevolmente capovolto: non sono più i valori, le relazioni, la coscienza civile e sociale, che contano, ma conta l’economia, conta il “mercato” (qualcuno direbbe il “capitale”, che oggi, in modo linguisticamente sciatto e acreativo, si è profuso in “capitale sociale, capitale umano, capitale emozionale…”).
Inoltre, occorre dire che questa confusione va a braccetto con la critica più pungente rivolta al “nativo digitale”: il suo alto rischio di esclusione sociale, esclusione dalle emozioni, esclusione dalle relazioni.
In un incontro alla Biblioteca Nazionale di Roma, fui invitato a parlare di “analfabetismo” e mi ritrovai accanto a un eccellente scrittore e una psicoterapeuta molto impegnata. La psicoterapeuta sosteneva che i “nativi” hanno “ovvie” difficoltà relazionali, vivendo molto tempo isolati e a contatto con schermi e tecnologie “inanimate” o “virtualmente animate”. Sono destinati così alla solitudine, a una vita priva di calore umano, priva del contatto umano e quindi vuota di sentimenti, o comunque povera di quei sentimenti profondi come quelli che può generare un’intensa relazione fra esseri umani. Rischiano una grande “povertà relazionale”.
Non ho potuto che pensare alle urla laceranti e disperate di un adulto analfabeta digitale (e non più neanche “migrante”) che, confinato nella sua gabbia dolorosa sempre più stretta, si dimena impazzito alla ricerca di una ragione per questa sua esistenza minacciata dal digitale. Una dignità vuota che trova beneficio nell’ineluttabile involuzione. Stefano Benni, in un’intervista di Fazio, a proposito della solitudine, dice: “È inutile avere dieci telefonini quando non ti chiama nessuno!”. E così un ragazzo dinanzi alla lettura di una bozza di questo articolo, mi ha detto: “Cosa c’entra la tecnologia con la solitudine? Se prima si avevano relazioni con il telefono o con una lettera, oggi noi le abbiamo con un Social Network… in fondo, poi, sono io a decidere se incontrare una persona!”.
Tornando alla psicoterapeuta. Ebbene, direi… da che pulpito!
Poniamo un po’ d’ordine. E cominciamo da quest’ultimo punto per risalire poi alla prima questione. Possibile che non ci rendiamo conto di quanto grave sia il disastro? Viviamo in una bolla che sta per esplodere. Scopriamo oggi la minaccia del digitale! E perché ci sorprende? In fondo i dati Ocse-Pisa ci dicono che l’istruzione non ha mai funzionato e che la vera piaga attuale è la dealfabetizzazione di massa (vedi “Analfabetismo: il punto di non ritorno” dell’autore). Penso, invece, che i nativi non possono che aiutarci ad evitare il peggio.
Allora, primo punto: le emozioni.
Abbiamo statistiche spaventose sulle cosiddette “relazioni umane” (dei “non digitali”). Separazioni, divorzi, abbandoni, violenze (dichiarate o soffocate), patologie come lo stalking o l’abuso, rapporti psicologicamente instabili o psicotici, stati di angoscia depressivi o aggressivi legati alle condizioni sociali o economiche.
Insomma, non mi sembra che l’adulto “normale”, non nativo digitale, possa vantare una gran capacità di socializzazione, una grande capacità di relazione comunque stabile e continua nel tempo (vedi il numero medio di costituenti il nucleo familiare, il numero dei divorzi, delle separazioni…). Ora, non è difficile capire quale sia il “limite” (almeno, quello più devastante) di queste relazioni. Esse sono solamente e semplicemente “sincrone”. Non c’è spazio per una riflessione, non c’è un tempo di metabolizzazione. Tutto accade “qui ed ora” e in modo troppo veloce: la relazione si fonda sulla presenza diretta, sullo scambio diretto di parole, emozioni istantanee, paure, gioie, tra due o più persone, qui e subito. Questo è un limite incredibile! Si esplode “contro” una persona, una “situazione” e poi è troppo tardi (non ha capito, siamo troppo diversi…). Occasioni perse, possibilità abortite, sviluppi deviati… troppo complicati… complicazioni insanabili! Per il nativo digitale è diverso: le sue modalità relazionali (e di comunicazione) sono sincrone, asincrone e diacroniche.
Queste modalità sono differenziate e non sono rigidamente definite dalla sola modalità sincrona del migrante digitale (a meno che non si vogliano considerare modalità di comunicazione per il “non nativo” la lettera, i telegrammi, i fax… con i loro tempi di trasmissione “infiniti” rispetto a quelle digitali).
Oltre a chattare “simultaneamente” con gli amici nei Social Networks, legge “sms”, “mms” o “msg” ricevuti prima e magari dopo l’avvio della chat (asincrona), gioca con compagni online entrati prima o dopo il suo ingresso, magari seguendo il secondo e, poi, il primo. Infine, la modalità diacronica che lo vede impegnato sullo sviluppo temporale di un rapporto mediato dai livelli di una costruzione complessa attraverso stadi successivi, scambiando suggerimenti e consulenze tra pari. La relazione si articola in modo dinamico utilizzando la modalità più adatta alla condizione spazio-temporale, ma soprattutto c’è sempre, ogni quando lo si desidera.
Le relazioni dei nativi digitali nascono in piccoli gruppi (quattro, cinque compagni di scuola dalle elementari alle medie e poi alle superiori), la cui estensione è illimitata nella rete, ma solida e continua nel gruppo ristretto (ci si sente in tutti i modi e con tutte le “facilities” a disposizione), invece, sporadica e casuale nel gruppo allargato. Interessante l’uso del termine “facilities” e non tecnologie o strumenti. Perché questi oggetti sono dei “facilitatori”, non degli oscuri ostacoli alla relazione.
Le relazioni con l’adulto si arricchiscono con la complicità del gioco-rapporto. Utilizzare uno “smart-game” come il “minecraft” per costruire il proprio “ambiente”, significa realizzare virtualmente il sogno della mamma, esplorarlo, riempirlo di emozioni, condividerle con lei, andando sempre oltre nella ricerca di quelle affinità che tanto più liberano quei sentimenti spesso soffocati. La “simulazione libera”! La simulazione si trasforma in reale quando, catarticamente, induce le emozioni ad esprimersi. Penso a una partita di bowling sulla Wii tra un nativo digitale e un “uomo di Neanderthal” (ad esempio, un nonno recalcitrante). Quest’ultimo, uscito dalla sua caverna fatta di ombre platoniche, si trova a vivere un rapporto eccitante con il nipote, condivide emozioni, comunica la sua gratitudine al piccolo, rispetta le sue abilità, insomma, nasce una complicità prima inesistente, nasce un canale di “comunicazione efficace”.
La comunicazione tra i nativi digitali si arricchisce della complessa interazione di tutte le modalità di espressione, tutte le forme di linguaggio, veicolate dalle tecnologie digitali. Quindi, perché mai siamo interessati alla digitalizzazione del cervello? Intanto, perché il cervello si esprime con tutte le modalità di cui ha bisogno, vuoi quelle analogiche, vuoi quelle digitali. Non è poi tanto difficile comprendere che se la via digitale è più ricca di quella analogica, il cervello stesso sceglierà di esprimersi nel modo più variabile possibile, semplicemente per avere più possibilità.
L’ambiente digitale si diffonde rapidamente e senza ostacoli perché rappresenta e descrive la natura animata e inanimata nella sua molteplicità, nelle sue complesse diversità, quindi in modo forse più fedele di quanto si possa fare altrimenti.
Ricordiamo la “grande catena dell’essere” di Lovejoy. Se al livello più basso poniamo l’analfabeta digitale, seguito poi dal migrante, quindi dal “millennial”, poi ancora dal “geek”, non possiamo non osservare che prima di arrivare ai “nativi puri” c’è una transizione non banale nella catena, diciamo un anello mancante, rappresentato dal meccanismo che trasforma l’analogico in digitale (puro), dal continuo al discreto, producendo forse una biforcazione della catena in più rami di quel che ci si potrebbe aspettare. Ma qui entriamo in un contesto che rimandiamo ad un altro articolo.
Arturo Marcello Allega