Quale scuola, quale docente nell’era digitale
«Si è svolto il giorno 29 settembre 2012 a Roma un Convegno internazionale organizzato dalla FIDAE (federazione istituti di attività educative) per valutare un progetto europeo, dal titolo “Information and communications technologies to support new ways of lifelong learning”, al quale hanno partecipato insegnanti delle scuole aderenti alla FIDAE stessa provenienti da tutta Italia e rappresentanti anche di scuole inglesi e francesi che hanno partecipato al progetto. La relazione introduttiva del Prof. Macrì, che noi pubblichiamo oggi, non si è però limitata all’argomento specifico del Convegno ma ha voluto spaziare su temi generali e di indirizzo, abbozzando elementi di una nuova cultura e pratica del sistema istruzione. Mi piace richiamare l’attenzione del lettore sul dato di convergenza della relazione del prof. Macrì con quanto anche noi sosteniamo sulla nostra rivista in tema di educazione fondata sull’apprendimento, di scuola dell’inclusione e della qualità, di ammodernamento del nostro impianto educativo, di funzione anche culturale delle tecnologie, di valore dell’autonomia responsabile».
Luigi Berlinguer
PREMESSA: LA SFIDA DELLE TECNOLOGIE DIDATTICHE
Di fronte all’irrompere prepotente delle nuove tecnologie didattiche la FIDAE (la Federazione delle scuole cattoliche primarie e secondarie d’Italia) ha ritenuto indispensabile farsi promotrice di un grande Progetto europeo che mettesse a confronto scuole cattoliche di nazionalità diverse e di diverse tradizioni secondo, soprattutto, due angolazioni prospettiche: quella “didattica” per le loro inevitabili ricadute nella pratica quotidiana dell’azione educativa e dell’organizzazione stessa della vita scolastica; e quella “culturale” in quanto esse vanno a modificare i processi mentali, i contenuti di coscienza, le relazioni interpersonali, il rapporto con il mondo circostante, l’autocomprensione di sé, cioè in altre parole le intime fibre dell’umanità di ciascuno. Un’iniziativa condotta nella piena consapevolezza che è sua responsabilità, in quanto istituzione rappresentativa di scuole ed educatori cattolici, predisporre gli studenti a vivere da protagonisti i fenomeni delle TIC dalle quali sono, e sempre più saranno, attraversati e condizionati; aiutarli a non subire passivamente l’influsso della loro pervasività e della loro seduzione; non lasciarli in posizione timida e difensiva rispetto alla loro invadenza, ma viceversa insegnare a cogliere attivamente tutta la loro positiva potenzialità; aiutarli a trasformare l’immenso loro serbatoio di informazioni e di dati in “conoscenze” e “cultura”, addestrarli a “navigare” e muoversi nella ragnatela dell’universo cybernetico conservando integra la loro libertà e autonomia. Un compito irrinunciabile per ogni scuola e per ogni docente (L. Masterman, A scuola di media, 1998), ma ancor più per una scuola e un docente che si qualificano cattolici e in quanto tali, ispirandosi ai grandi valori evangelici della libertà, della responsabilità, mettono al centro delle loro attenzioni e delle loro prassi educative la “persona”, intesa come valore assoluto e “indisponibile” a qualsiasi forma di strumentalizzazione, omologazione e prevaricazione siano esse anche soltanto di natura simbolica e comunicativa (cfr. Benedetto XVI, Discorso alla Diocesi di Roma sull’emergenza educativa, 2007).
Ma perché questi obiettivi auspicati diventino effettivamente realizzabili, la FIDAE attraverso questo Progetto sulle tecnologie didattiche ha voluto proseguire un impegnativo cammino, iniziato molti anni fa, che si spinge nella direzione di una “ridefinizione” e “riprogettazione” di una scuola che privilegi, più di quanto ha fatto quella tradizionale, l’acquisizione dei metodi di ricerca, sperimentazione, innovazione ed apprendimento rispetto ai contenuti da trasmettere; distingua con più chiarezza tra la portata “strumentale” dei “mezzi”, pur evoluti come quelli digitali, e l’acquisizione dei fini e dei valori sui quali si fonda la propria visione della vita (“weltanschauung”); rielabori criticamente e sapientemente l’enorme quantità dei dati disponibili nella Rete in un organico progetto culturale significativo e finalisticamente utile; esca dall’ambito chiuso e ristretto delle sue mura per allargarsi sull’orizzonte immenso del mondo; rompa alcune sue rigidità burocratiche e gerarchiche per assumere modalità più leggere, flessibili, personalizzate, democratiche, dinamicamente innovative; abbandoni metodologie eterodirettive che creano dipendenza e, a volte, anche disaffezione (cfr. i ben noti abbandoni scolastici) per adottarne altre più coinvolgenti, più partecipative, più suscitatrici di iniziativa, creatività, autonomia, collaborazione.
Il Progetto, intitolato “Information and communication technologies to support new ways of lifelong learning”, (LLP-LdV-TOI-10-IT-488), concluso a Roma il 29 settembre 2012, è stato promosso dalla FIDAE e sviluppato in stretta, fattiva collaborazione con Intesa Sanpaolo Formazione e i Segretariati Generali delle Scuole Cattoliche di Inghilterra (CES – Catholic Education Service) e Francia (EC – Enseignement Catholique). Ha coinvolto come partners ben 14 scuole delle tre nazioni ed è risultata un’esperienza di grande rilevanza e significato per coloro che vi hanno direttamente partecipato ma che, per mezzo dei materiali prodotti e pubblicati in volume e su supporto digitale, potrà diventarlo anche per altri docenti, realizzando in questa maniera un’operazione virtuosa di disseminazione di una pratica innovativa d’eccellenza che ha tutti i requisiti per diventare termine di confronto e di riflessione per altre scuole d’Europa. Naturalmente, rispetto alla complessa e sempre mutevole materia delle tecnologie didattiche, il Progetto non poteva che assolvere il compito di essere un primo passo, seppur importante, di un processo che deve continuare nel tempo, l’incipit di un’articolata riflessione che dovrà andare ad approfondire ed esplorare di volta in volta aspetti nuovi ed emergenti che si andranno riproponendo, la traduzione consapevole di una didattica che progressivamente si misura con le sfide della modernità senza perdere le proprie radici culturali e i grandi valori della tradizione pedagogica italiana, francese, inglese.
Come appare dall’indice del Progetto, molte sono state le questioni sulle quali i partecipanti hanno lavorato, rispetto ai cui singoli contenuti rinvio alla lettura del volume. Qui mi limito a esporre alcune brevi considerazioni di carattere generale che hanno costituito un po’ la sua innervatura, la filosofia sottesa alla quale si è ispirato, gli obiettivi generali verso i quali si è proposto di tendere. Non esauriscono perciò l’intero panorama delle problematiche, ma certamente colgono alcune urgenze rispetto alle quali una scuola moderna deve confrontarsi e trovare le migliori soluzioni didattiche e pedagogiche perché non venga meno al suo statuto epistemologico e al mandato educativo che la società, le famiglie le assegnano. Costituiscono delle sfide dentro le quali si gioca la sua validità, autorevolezza, credibilità, efficacia, qualità e pertanto il suo contributo specifico in quanto istituzione educativa a far nascere un’umanità nuova e migliore.
LO SCENARIO DI RIFERIMENTO
Tra i tratti più significativi che caratterizzano l’attuale società postmoderna occupano un posto di particolare rilevanza la terziarizzazione del sistema produttivo, il cambiamento qualitativo della forza-lavoro, la finanziarizzazione dell’economia, l’adozione diffusa di tecniche decisionali sempre più rapide e planetarie, ma, soprattutto, l’esplosione delle informazioni e delle conoscenze (P. Flichy, La rivoluzione digitale, 1996). Gli strumenti di questa trasformazione sono prevalentemente le nuove tecnologie dell’elettronica, delle telecomunicazioni, dell’informa¬tica e le loro infinite combinazioni; la materia prima è costituita dai dati, dalle informazioni, dalla conoscenza scientifica, dal pensiero razionale, dalle risorse umane.
Le tecnologie dell’informazione e comunicazione (TIC) stanno trasformando tutti gli aspetti della nostra vita e della nostra civiltà (Z. Bauman., Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Roma 1999). Il mutamento che stiamo vivendo è globale e profondo. Un diverso, più veloce, più complesso, più diffuso uso delle informazioni significa, infatti, aprire nuove virtuali frontiere alla conoscenza e al pensiero e, quindi, allo stesso progresso civile, sociale e umano. In questo scenario di progressiva evoluzione della società, le tecno¬logie dell’informazione, con le loro molteplici e pervasive applicazioni, si presentano non solamente come una tecnologia specifica ma anche e soprattutto come un fenomeno “culturale”. Da strumento si trasformano in linguaggio, contenuto, metodo (“il medium è il messaggio”, M. McLuhan). Sono un modo diverso di essere e fare “cultura”, rendono possibile una vera “mutazione” della mente, favoriscono il passaggio dal “fare” al “concepire”, dallo stadio delle operazioni concrete a quello delle operazioni formali e viceversa. (H.I. Inose – J.R. Pierce, Tecnologie dell’informazione e nuova cultura, 1984).
In quanto forniscono importanti strumenti culturali (linguistici, concettuali, operativi e materiali) diventano per tutti un elemento insostituibile della formazione generale e di base, perché interferiscono con le facoltà umane di percezione, memorizzazione, interpretazione, manipolazione, trasformazione della realtà. La loro crescente rilevanza tuttavia non deve far perdere di vista che al centro e al di sopra si colloca (o si dovrebbe collocare) non la macchina ma sempre e comunque l’uomo, la sua intelligenza, la sua personalità, la sua moralità, la sua relazionalità. Il salto qualitativo che dovrà, quindi, essere compiuto da ciascuno è nella direzione di una crescita di un “surplus” di intelligenza e libertà (di umanità) perché più lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione sarà correlato al software, più le attività di produzione si trasformeranno in servizi, più i nuovi materiali dipenderanno da conoscenze scientifiche e tecniche elevate, più le transazioni internazionali saranno virtuali, è evidente che sempre più il lavoro umano si dovrà trasformare in attività di immaginazione e creazione, di utilizzazione e organizzazione di processi e prodotti prevalentemente “immateriali”; operazioni tutte che presuppongono un raffinato substrato intellettuale e un alto contenuto umano. Sotto quest’aspetto si evidenzia lo sforzo di crescita e maturazione che ognuno deve compiere per predisporsi adeguatamente a vivere in questa nuova società, ma anche il compimento del vecchio sogno dell’uomo di limitarsi al suggestivo e affascinante compito dionisiaco del “creare”, del sognare, dell’immaginare, del “poetare”, del godere senza il peso faticoso e monotono del “fare”, del “lavorare” (F. Nietzsche, La gaia scienza; Ditirambi di Dioniso).
LE DIMENSIONI DELLA SOCIETÀ DELLA CONOSCENZA: ACCELERAZIONE, GLOBALIZZAZIONE, COMPLESSITÀ
Uno degli obiettivi principali della strategia di Lisbona è quello di “fare dell’Europa l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo”. È interessante notare come l’accento del Parlamento europeo viene posto sulla conoscenza e non sulle tecnologie, sull’uomo in quanto produttore e portatore di sapere e non sulle risorse naturali o sui capitali economico-finanziari. L’uomo è la vera risorsa, il passaggio obbligato per una nuova stagione del mondo. Ma perché questo veramente accada occorre una mobilitazione di tutte le istituzioni in particolare della scuola e dell’università con una puntualizzazione tuttavia, rispetto all’affermazione del Parlamento europeo: che la rilevanza del sapere non si esaurisce nella promozione della ricchezza e del benessere, nella disposizione di reggere la competizione del mercato globale. Il sapere è innanzitutto lo strumento per progredire in una direzione che potremmo definire “civiltà della conoscenza” (G. Olimpo, Società della conoscenza, educazione, tecnologia, 2010) in cui la dimensione cognitiva e la dimensione etica non sono più indipendenti tra loro, mentre sono invece legate tra loro in un rapporto di rinforzo reciproco sia a livello del singolo individuo che della collettività. In particolare la maturità cognitiva collettiva determina un contesto capace di riconoscere il vero e il bene dietro lo schermo della complessità degli eventi e della molteplicità delle immagini promuovendo in tal modo l’etica della vita pubblica in ambito sociale, economico e politico. H. Gardner (Cinque chiavi per il futuro, 2007) riconosce nella dimensione etica la quinta e ultima delle chiavi necessarie per affrontare il futuro.
Oggi, l’uomo vive e opera in una sorta di contenitore spazio-temporale. Spazio e tempo influenzano profondamente tutti i processi individuali e collettivi. Qualunque modificazione dei rapporti spaziali e temporali fra persone, cose ed eventi ha necessariamente profonde conseguenze sulla vita dell’uomo. La società della conoscenza è caratterizzata da due alterazioni spazio-temporali ben note: accelerazione del cambiamento e globalizzazione. Accelerazione del cambiamento significa che il numero di eventi che ci riguardano o ci interessano o di cui dobbiamo in qualche modo tener conto è in continua crescita. È chiaro che il tempo continua a scorrere come sempre, ma la percezione che se ne riceve è quella di un tempo accelerato in cui la frequenza degli eventi importanti continua a crescere. Quest’accelerazione riguarda moltissimi aspetti della vita collettiva, dalla produzione di nuovi saperi (in particolar modo lo sviluppo scientifico e tecnologico) alle trasformazioni sociali, ai mercati. Ciò significa che l’individuo, per riuscire ad affrontare le nuove situazioni che gli si presentano, si trova, da una parte, a rapportarsi con un numero crescente di nuovi saperi/eventi e, dall’altra, deve costantemente rispondere a domande di cui non conosce ancora la risposta o produrre nuovi saperi di cui ancora non dispone.
La globalizzazione riguarda, invece, lo spazio e si riferisce all’interrelazione sempre più forte tra eventi, processi e saperi, indipendentemente dalla loro localizzazione. Anche la globalizzazione, come l’accelerazione, riguarda molti aspetti della vita dell’uomo: lo sviluppo scientifico e tecnologico, i prodotti e i mercati, gli avvenimenti, le culture. La globalizzazione richiede all’individuo di allargare il proprio raggio di consapevolezza e di azione e lo porta a fare riferimento non soltanto a ciò che è prossimo, ma anche a ciò che è distante. Naturalmente i termini “prossimo” e “distante” hanno certamente un significato spaziale, ma soprattutto concettuale e culturale. Per quanto riguarda il sapere, le tecnologie digitali annullano la distanza in senso spaziale. Da un punto di vista strettamente tecnico, il sapere diventa, almeno in linea di principio, immediatamente accessibile, indipendentemente dalla localizzazione del suo supporto fisico o della persona che ne è portatrice. Tuttavia la rete non è equiparabile ad un unico luogo del sapere, non è paragonabile a una biblioteca o a un’enciclopedia per la semplice ragione della indeterminazione dei contenuti, delle differenti finalità per cui i contenuti sono stati prodotti o inseriti nella Rete, della diversità degli ambienti o dei punti di vista da cui i contenuti derivano e del loro livello di qualità e affidabilità. L’individuo così deve confrontarsi con molti differenti luoghi del sapere che non sono luoghi fisici, ma piuttosto contesti culturali, approcci concettuali, punti di vista, interessi di parte.
La rete di relazioni prodotte dalla globalizzazione, l’utilizzazione pervasiva delle tecnologie digitali, la natura sempre più distribuita dei saperi e la velocità dell’innovazione e della trasformazioni di alcuni aspetti della società determinano una complessità crescente di fenomeni, sistemi (sia naturali che artificiali) e saperi. C’è complessità quando sono molte e inseparabili le differenti componenti che costituiscono un tutto (come quella economica, quella politica, quella sociologica, quella psicologica, quella affettiva etc.) e quando c’è un tessuto interdipendente e interattivo fra le parti (E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e del pensiero nel tempo della globalizzazione, 2000). La società della conoscenza richiede perciò costantemente all’individuo e alla collettività di confrontarsi con la complessità nel comprendere, nell’operare e nel comunicare.
Sinteticamente potremmo concludere che la società della conoscenza evolve secondo una particolare linea di sviluppo per l’apporto concomitante di accelerazione, globalizzazione, complessità. Per essere un “attore” consapevole all’interno di questa società della conoscenza l’individuo deve saper avanzare lungo queste tre direttrici richiamate, il che significa non soltanto che deve disporre di un dato patrimonio di conoscenze, competenze e strumenti cognitivi e metacognitivi, ma anche che deve saper evolvere quel patrimonio in modo continuo per rapportarsi con una società e con un sapere sempre più accelerati, globalizzati e complessi. Ma questo risultato è realizzabile soltanto se l’educazione ha messo in campo tutte le iniziative possibili (pedagogiche, didattiche, metodologiche, organizzative, strumentali, curriculari etc.) per realizzare quel famoso principio di Montaigne: “È meglio una testa ben fatta, che una testa ben piena” o quell’altro ancor più antico di Quintiliano: “Non multa, sed multum”. Un principio che è stato indiscutibilmente vero in tutti i tempi e in tutte le società, ma che lo è soprattutto oggi nella società dell’informazione e della comunicazione nella quale l’individuo rischia di “collassare” sotto la pressione vorticosa e confusa di infinite informazioni e comunicazioni, moltissime delle quali non sono che semplice “spazzatura”.
NEL REGNO DEI NATIVI DIGITALI
In questa nostra società, in cui la conoscenza col supporto delle nuove tecnologie, fondate sulla velocità e quantità delle informazioni veicolate e sulla possibilità di relazionarsi in tempo reale con più soggetti e più fonti, una distanza crescente divide i giovani, cosiddetti “nativi digitali”, e gli adulti, considerati “immigrati digitali”. Questi due termini, coniati per primo da Marc Prensky (Digital Natives, Digital Immigrants, 2001; From Digital Natives to Digital Wisdom, 2012), illustrano in maniera suggestiva ed evocativa i cambiamenti di tipo cognitivo, comunicativo e comportamentale indotti dalle nuove tecnologie, onnipresenti nella vita delle nuove generazioni sin dalla più tenera età. Tutto ciò apre alla necessità di una riflessione sul “grado” di consapevolezza che questo modo di comunicare porta con sé e in che “misura” può contribuire allo sviluppo della conoscenza.
Questo nuovo universo relazionale sta modificando il “modo” in cui la conoscenza, la cultura si sviluppa. Stiamo tendendo verso un modello di “cultura convergente” (H. Jenkins, Convergence Culture, New York, 2006) che ruota intorno al concetto di “intelligenza collettiva” (P. Levy, Cybercultura. Gli usi sociali delle nuove tecnologie, 1999), secondo cui “nessuno conosce tutto, tutti conoscono qualcosa, tutta la conoscenza risiede nell’umanità”. Media digitali e comunicazione interattiva sono i fenomeni più eclatanti del mutamento sociale e dell’industria culturale all’inizio del nuovo millennio. Oggi gli eBook, così come gli smartphone, e i Tablet Pc, sempre connessi a Internet, assediano ogni giorno più da vicino il regno della carta stampata. Ma la nuova cultura digitale, cioè l’affermarsi di uno stile comunicativo orientato all’interazione, alla produzione di contenuti e alla condivisione, è stata accompagnata, durante gli ultimi vent’anni, dall’affacciarsi sulla scena di una nuova forma evolutiva dell’Homo sapiens: il “nativo digitale”. Ma chi sono i nativi digitali? Come comunicano? Come si relazionano al sapere?
Nati e cresciuti all’ombra degli schermi interattivi, i nativi digitali sono “simbionti” strutturali della tecnologia, e le “protesi tecnologiche” che utilizzano dall’infanzia sono parte integrante della loro identità individuale e sociale. Fin da piccoli videogiocano, hanno un blog e comunicano sui social network come Facebook o MySpace. È con questa generazione di ragazzi che gli adulti, la scuola devono confrontarsi. Come ha scritto Pierre Levy (L’Intelligence collective. Pour une anthropologie du cyberespace, 1994; Les Tecnologies de l’intelligence. L’avvenir de la pensée à l’ère informatique, 1990; Cybercultura. Gli usi sociali delle nuove tecnologie, 1999), la loro cultura è «partecipativa» e si fonda su «produzione e condivisione di creazioni digitali» per cui a scuola si andrebbe a costituire una «partnership informale» tra insegnanti e alunni, che porta il ragazzo a sentirsi responsabile del progetto educativo. In questo nuovo contesto ‘insegnante non può più essere un “trasmettitore” di conoscenza (semmai lo fosse stato), ma un «facilitatore», che fa da filtro tra il caos della rete e il cervello dello studente. Questi “nativi digitali” «frequentano gli schermi interattivi fin dalla nascita e considerano internet il principale strumento di reperimento, condivisione e gestione dell’informazione» (Paolo Ferri, Scuola digitale. Come le nuove tecnologie della comunicazione cambiano la formazione e la scuola, 2008). È la prima generazione veramente hi-tech, che pensa, apprende e conosce in maniera differente da coloro che li hanno preceduti. Se per costoro imparare significava leggere-studiare-ripetere, per i bambini cresciuti con i videogames vuol dire innanzitutto risolvere i problemi in maniera attiva» (Ferri). I bambini cresciuti con consolle e cellulare sono «abituati a vedere la risoluzione di compiti cognitivi come un problema pragmatico» (Lynn Clark). «Grazie ai videogiochi, il loro sapere si nutre di simboli, sfide e modelli di narrazione sempre diversi» (Nishant Shah).
«La tecnologia dell’attuale generazione adulta era quella televisiva, cioè, un modello analogico che stabilisce ruoli, responsabilità e struttura della produzione, diffusione e consumo di conoscenza. Con l’esplosione del p2p – l’idea di una rete dove non esiste gerarchia e tutto viene condiviso – i ruoli sono messi in discussione e ognuno si considera parte attiva nella produzione di sapere». Se è vero che la frase: «L’ha detto internet», ha assunto tra i bambini l’autorevolezza di una sentenza, è innegabile che la Rete sia la patria del “vero-simile”. «Internet sta ridisegnando i confini della verità – continua Shah – e questo pone grandi sfide per gli educatori del XXI secolo: Come si fa a imparare utilizzando fonti che non hanno approvazione istituzionale? Come si può riconoscere un valido provider di conoscenza nel caos online?».
«La “cut-and-paste culture” e la presunzione di veridicità della Rete» tendono ad abbassare la percezione critica degli utenti: Internet diventa per i bambini “la fonte”, a prescindere dall’autorevolezza del sito e di chi scrive e dalla forza argomentativa dei contenuti ingenerando così una sorta di smobilitazione e disarticolazione dell’intelligenza e del pensiero per “consegnarsi” nelle mani di altri, che spesso sono semplici faccendieri al servizio dei poteri dominanti.
NUOVI COMPITI DELLA SCUOLA
Di fronte ai progressi di queste nuove tecnologie, sulle quali peraltro si giocherà in gran parte il futuro di ogni nazione all’interno di un processo inarrestabile di globalizzazione e competizione internazionale, e all’impatto che esse hanno sulla natura stessa individuale e sociale dell’uomo, si impone come conseguenza una revisione profonda e urgente del modo di essere e di funzionare della scuola. Essa non può non raccogliere questa sfida (E. Cresson, Insegnare e apprendere. Verso la società cognitiva, 1995; CERI, Le nuove tecnologie dell’informazione. Una sfida per l’educazione, 1988), non può cullarsi nella sua tradizionale sonnolente autoreferenzialità, non può non cambiare se si assume, come epistemologicamente fondato, il principio che la sua “mission” è quella di essere al servizio dell’uomo e della società e di contribuire a sviluppare tra questi due soggetti inseparabili un dialogo proficuo e una positiva interazione.
Queste tecnologie informatiche hanno, infatti, prodotto un radicale mutamento delle modalità di acquisizione di conoscenze e competenze; si sono imposte come un nuovo linguaggio, come un nuovo modello del sapere, particolarmente appropriato per studiare i sistemi complessi, i grandi processi strutturali e sovrastrutturali di fronte ai quali, inadeguati si dimostrano i modelli “statici” del sapere tradizionale. Le istituzioni dell’educazione e istruzione della nuova era digitale non possono più essere conformi a quelle dell’epoca della sola parola “orale” o “scritta”. (P. Levy, L’intelligenza collettiva. Per una antropologia del cyberspazio, 1996). Pertanto devono assumere e promuovere nuovi modelli organizzativi, nuove metodologie, nuovi percorsi curricolari, nuove modalità di interfacciamento con la società civile e produttiva, nuove offerte di servizi, nuove conoscenze, nuove competenze, nuovi standard di qualità. Come pure deve modificarsi il profilo professionale del docente che non può più limitarsi a essere semplice “erogatore” di informazioni, come poteva essere nei decenni precedenti, perché queste nuove tecnologie in questa funzione lo superano infinitamente per quantità e qualità. Il nuovo docente dovrà, invece, essere in grado di insegnare soprattutto un “metodo” rigoroso di studio e apprendimento, di offrire “strumenti” critici di analisi della realtà, di sviluppare “abiti” intellettuali e comportamentali, di far cogliere il “significato” delle cose, di insegnare a “ordinare” le informazioni in un disegno culturale organico e sistematico, di suscitare “interessi” e sensibilità, di suggerire “riferimenti etici e valoriali”, di orientare a fare “scelte motivate e autonome”, di potenziare atteggiamenti di “tolleranza”, “dialogo”, di educare ciascun allievo ad “imparare ad imparare” e ad “imparare ad essere” (J. Delors, Nell’educazione un tesoro, 1996).
Solo così, nella società dell’informazione, la scuola e i suoi operatori, nonostante le molte affascinanti e seducenti agenzie informative (scuole parallele) che si vanno moltiplicando e che si presentano, spesso, in modo a essi concorrenziali, non solo non perderanno la rilevanza sociale e culturale che veniva loro attri-buita dalla tradizione, ma anzi ne acquisteranno una più grande perché il loro ruolo, la loro funzione, il loro significato, il loro valore si dimostreranno sempre più insostituibili e importanti, perché qualita-tivamente più evoluti e di più alto profilo formativo rispetto al passato, perché più correlati alla promozione integrale dell’uomo, più proiettati ad “insegnare il futuro”. (J.W. Botkin – M. Elmanjra – M. Malitza, Apprendimento ed istruzione. Imparare il futuro, 1979).
Le ultime indagini sull’introduzione delle nuove tecnologie nella scuola dicono che gli insegnanti, non solo in Italia, sono poco propensi a farne un uso didattico “ordinario”, cioè, ad utilizzarle e farle utilizzare in aula dagli studenti, nel “vivo della relazione insegnamento-apprendimento”. Si limitano, invece, a progetti specifici, cioè ad esperienze seppur innovative che si “aggiungono” a latere alla didattica ordinaria. L’interpretazione più diffusa di questi comportamenti professionali fa riferimento all’appartenenza degli insegnanti a generazioni per le quali le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione sono, se va bene, “lingua seconda”, mentre per gli studenti “digital natives” sono invece “lingua materna”. Ma al di là di questo, a frenare la soluzione del problema ci sono altri motivi riconducibili alla percezione del proprio profilo professionale. Tra questi la convinzione che le TIC demoliscono molte caratteristiche della didattica tradizionale “trasmissiva” a cominciare dal controllo delle modalità, degli strumenti, dei contenuti e dei processi di apprendimento, basati sulla lezione “in presenza” e sul “libro di testo”. Viceversa è proprio questa potenzialità innovativa che fa innamorare delle TIC chi, auspicando un rinnovamento radicale degli apparati scolastici, vede in esse la spada con cui tagliare di netto i nodi che finora non si è riusciti a sciogliere. Ma è ovvio che in un corpo professionale con un’età media molto alta prevalgono atteggiamenti di conservazione con reazioni difensive e di rigetto. Questi insegnanti si trovano di fronte a soggetti che apprendono all’interno di contesti del tutto nuovi rispetto a quelli in cui loro si sono formati. Per la prima volta nella storia, bambini e ragazzi ne “sanno di più” dei loro maestri, si muovono con maggior agio e disinvoltura degli adulti davanti ad una innovazione che risulta fondamentale per la nuova società. Si tratta paradossalmente di un ribaltamento dei ruoli rispetto all’insegnamento tradizionale in cui erano gli insegnanti a “sapere” e i ragazzi – ignoranti – a “dover imparare”. Ma questo non può che incutere una certa “paura” perché mette in crisi l’autorità docente fondata sul possesso di un sapere necessario che gli allievi ancora non hanno, minare alla base una rappresentazione di sé e un’identità professionale basata sul padroneggiamento esclusivo di un sapere da trasmettere, determinare la necessità di ridefinire un ruolo che non può più incentrarsi solo o principalmente sulla trasmissione delle conoscenze (F. Faiella, Progettare la didattica costruttivista, 2009).
Da qui sorgono alcune domande: cosa può diventare, con l’uso didattico delle TIC, la funzione specifica della scuola e in che cosa si può concretizzare il lavoro docente? E inoltre, che cosa si può sostituire, una volta che l’informazione sia direttamente a disposizione dell’allievo, al controllo sull’apprendimento assicurato finora da uno strumento, com’era il libro di testo, che resta identico nella formazione d’aula e nello studio individuale fuori dall’aula? Ma ben altre contraddizioni si vanno profilando nel contrasto tra l’approccio lineare, sequenziale, strutturato, argomentativo, per lo più deduttivo dell’insegnamento scolastico tradizionale e le logiche di ipertestualità, reticolarità, esplorazione indotte da internet. Gli studenti non sono, non possono più essere rappresentanti come “tabulae rase” sulle quali scrivere, spugne in attesa di assorbire nozioni e metodi. La facilità di accesso all’informazione e la libertà esplorativa del navigare nel Web danno ad essi una sensazione di padronanza e di autonomia che la “scuola della trasmissione” non prevedeva. Non c’è da meravigliarsi allora se di fronte a tali questioni e all’assenza di soluzioni convalidate da teorie pedagogiche e dai risultati di un lavoro sperimentale verificato, gli insegnanti (non certo tutti) tendono a confinare in spazi e progetti specifici, episodici, occasionali l’utilizzo delle nuove tecnologie o di “piegarle”, depotenziando le loro possibilità, ai vecchi loro modelli di insegnamento. Emblematico, oggi, è l’uso minimale delle LIM (lavagne interattive) portate ai livelli delle vecchie lavagne di ardesia.
Esplicito e vistoso è il contrasto tra i sistemi tradizionali di produzione/riproduzione delle conoscenze e la “democratizzazione” dell’accesso alla conoscenza aperta dalle TIC. Una cosa è il sapere, patrimonio di un ceto professionale che decide quanto, come e quando, di quel sapere erogare agli altri e come valutare i risultati, un’altra cosa è la conoscenza circolare, lo scambio tra pari, promesso da internet. Può apparire come un salto verso l’ignoto il passaggio dal sapere “unidirezionale” (da uno a molti) ad un sapere “circolare” e “pluridimensionale” (da molti a molti). Un contrasto che bisognerà inevitabilmente imparare a governare nei sistemi di istruzione, ridefinendo teorie e pratiche, sperimentando nuove modalità di insegnamento/apprendimento ed organizzative, investendo massicciamente sulla formazione del personale docente, affiancando esperti a chi progetta e realizza le sperimentazioni in modo che sia superata l’illusione che sia possibile rinnovare in automatismo la scuola limitandosi ad introdurre semplicemente le nuove tecnologie come fossero la panacea della qualità.
Un fatto ormai è certo e si impone davanti a tutti: Le nuove tecnologie didattiche sono una realtà; chiudere davanti a loro gli occhi non è possibile. Una scuola che pretendesse di restare “immune” dai loro condizionamenti nell’illusione di poter vivere in uno spazio immaginario fuori dal tempo verrebbe a perdere le condizioni minime di legittimazione, attrattività, credibilità per continuare il suo lavoro educativo. Nella dilagante demotivazione alla frequenza scolastica degli adolescenti ci sono già i segni visibili di un rifiuto di linguaggi, stili di apprendimento, grammatiche cognitive che la scuola va ancora proponendo senza tener conto del nuovo contesto che si è andato creando intorno e dentro (cioè, gli alunni) ad essa. Continuare a perdere altro tempo temporeggiando soluzioni che sono orami inevitabili sarebbe per essa una terribile sconfitta.
IL PRIMATO DELL’INTELLIGENZA
Per le ragioni sopra accennate la scuola non solo non deve sottrarsi alle sfide delle nuove tecnologie per timore di una improbabile concorrenza o per un infondato complesso di inferiorità; ma deve, anzi, saper cogliere questa occasione come un momento favorevole di “purificazione” della sua identità e del suo ruolo. Esse la costringono, infatti, a riprendere e rivalutare finalità e metodi che si erano venuti gradual-mente perdendo o sfumando con la scolarizzazione di massa, a privilegiare funzioni essenziali che avevano subìto una forte prevaricazione da parte di altre secondarie o marginali. Dovrà, quindi, recuperare i modi più adeguati per dare primato alla conoscenza sull’informazione, alla creatività sulla ripetitività, alla criticità sull’assenso passivo, alla ricerca sulla compilazione, alla immaginazione sulla imitazione, alla originalità (pensiero divergente) sulla standardizzazione e omogeneizzazione, alla singolarità sulla massificazione. (Ott M. – Pozzi F., Usare le TIC per sviluppare la creatività a scuola, 2009; A. Mattelart, La comunicazione nel mondo, 1994; M. Lipman, Educare al pensiero, 2003).
In questo modo potrà assolvere pienamente la funzione che la società le attribuisce e si aspetta, che è quella di predisporre i giovani a dominare l’attuale cambiamento, legato all’esplosione delle conoscenze da un lato, e all’innovazione tecnologica dall’altro, investendo appunto tutte le sue energie nella promozione dell’intelligenza (G. Cottier, Etica dell’intelligenza, Roma 2003), cioè della capacità di pensare, scoprire, porre e risolvere problemi, usare in maniera sempre più raffinata le conoscenze, veicolate massicciamente dalle tecnologie multimediali. Negli USA si utilizza un termine estremamente espressivo per riferirsi alle nuove professionalità emergenti, collegate alle tecnologie informatiche: si parla dei lavoratori della conoscenza (“knowledge workers”). Il termine evidenzia suggestivamente la centralità della conoscenza nella nostra società postindustriale ed esprime il fatto che, di fronte alla rapidissima evoluzione delle macchine, ciò che permane a livello stabile sono la conoscenza dei problemi, la comunicazione interpersonale e la comunicazione interattiva tra l’uomo e la macchina.
Naturalmente l’esplosione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione non si spiega senza approfondire la precedente e simmetrica esplosione delle conoscenze che ne è al tempo stesso “causa ed effetto”. E siccome l’informatica e la telematica introducono nei sistemi organizzativi un supplemento di complessità, prenderle da “sole” come rimedio per semplificare la gestione delle conoscenze rischia quantomeno di lasciare le cose come sono. Con queste nuove tecnologie emerge, si sviluppa e si accumula un “sapere nuovo”, insieme più astratto e più concretamente efficiente, unitario nei fondamenti scientifici e metodologici e flessibilmente adattabile ad ogni situazione. Non sostituisce il sapere precedente, ma lo integra, lo trasforma, lo esprime in nuovi beni strumentali e in nuove combinazioni. La conoscenza per mezzo delle tecnologie dell’informazione viene unificata attraverso le regole logico-linguistiche che la esprimono, e la rendono rigorosamente comunicabile e, quindi, intersoggettiva. Essa viene inoltre definita attraverso le operazioni necessarie per la sua validazione e il suo uso. Combinati con le tecnologie elettroniche questi due approcci conseguono risultati altamente innovativi:
– la disponibilità di un “sapere astratto” in grado di acquisire qualunque altra conoscenza, scientifica e tecnologica;
– la disponibilità di conoscenze, definite in termini “operativi” ed espresse perciò in linguaggi, capaci di “istruire le macchine” ad eseguire le sequenze applicative di queste conoscenze;
– l’unificazione tra il “sapere” e il “saper fare” e, quindi, il superamento di quella situazione di non sapere utilizzare le conoscenze acquisite che la recente ricerca psicologica sull’apprendimento definisce “conoscenza inerte”;
– il superamento del proprio isolamento attraverso un circuito reticolare mondiale (internet) che abbraccia l’intero villaggio umano nelle sue infinite diversità e ricchezze.
CONCLUSIONE
Le tecnologie dell’informazione e comunicazione nelle loro molteplici applicazioni e sviluppi, introducono un elemento di progressiva e accelerata “intellettualizzazione” della società. Tale intellettualizzazione consiste, sinteticamente, sia nella richiesta di attitudini sempre più marcate verso la formalizzazione e il rigore logico, sia nella soluzione dei problemi, sia prima ancora, nella stessa attitudine a concepire un problema, a riconoscerlo come tale. Quest’affermazione dovrebbe essere in grado di tranquillizzare tutti coloro che, enfatizzando in maniera esasperata alcune possibili loro ricadute negative, vedono nelle nuove tecnologie una minaccia per l’intelligenza.
Parafrasando il titolo di un famoso libro di Umberto Eco (Apocalittici ed integrati, 1993), nei confronti di queste nuove tecnologie didattiche sarebbe opportuno che coloro che operano nel mondo della scuola non assumessero pregiudizialmente né l’atteggiamento di essere catastroficamente “apocalittici”, né quello di essere ingenuamente “integrati”. Come tutte le cose umane anche queste tecnologie hanno una loro “ambivalenza”, una loro “ambiguità” di fondo. Per se stesse non sono né buone, né cattive. Dipende dall’uso che se ne fa, dai fini che ci si prefigge di raggiungere, dai significati che si attribuiscono, dalla collocazione che a loro si accorda nel contesto complessivo della propria esperienza di vita. Certamente hanno in sé un enorme potenziale che nella scuola potrà realizzarsi però a una condizione da tenere bene a mente: che i docenti siano effettivamente “predisposti” ad operare con questi nuovi strumenti. Non basta, infatti, attrezzare le scuole con strumentazioni sofisticate e d’avanguardia. È la qualità professionale dei docenti che fa la differenza, la loro capacità di riconvertire i loro metodi tradizionali di insegnamento cattedratico e unidirezionale, la loro disponibilità a privilegiare i processi di apprendimento collaborativo e autonomo degli allievi, la loro volontà di mettersi in gioco non considerandosi gli esclusivi detentori del sapere. Se gli insegnanti saranno aiutati dalle istituzioni preposte alla loro formazione (e l’attivazione da parte della FIDAE di questo Progetto ha esplicitamente questa finalità) a svolgere bene questo rinnovato ruolo e compito, allora si potrà essere certi che le nuove tecnologie didattiche saranno entrate a scuola con successo e che gli alunni raggiungeranno quei risultati di eccellenza che sono il presupposto indispensabile per vivere nella società della conoscenza la loro cittadinanza in maniera consapevole, attiva e responsabile. In caso contrario la scuola avrà perso un’occasione importante e altre agenzie di informazione e formazione la scavalcheranno da tutte le parti e renderanno la sua presenza ingombrante, costosa, scarsamente significativa agli occhi dei giovani. Le nuove tecnologie didattiche sono una grande sfida per tutti, aprono di fronte a ciascuno un grande e inedito scenario. Coloro che ne saranno capaci raccoglieranno i frutti di questo nuovo “albero della conoscenza”. Gli altri saranno esclusi. E l’esclusione li renderà più deboli, più marginali, più poveri, meno cittadini, ma anche meno uomini.
Francesco Macrì