A proposito di scuola digitale
L’ambiente, come in biologia, è l’insieme integrato di spazio, tempo, popolazioni e relazioni tra esse. Così è anche per la scuola. L’impulso innovativo che proviene dalla tecnologia investe tutte queste dimensioni.
In qualunque impresa tecnologia e organizzazione si tengono in una dialettica stretta. Non in termini deterministici: la tecnologia “disponibile” per i processi produttivi lascia sempre almeno un grado di libertà (almeno uno) dal quale dipende la sensata ri-organizzazione dei processi. Un grado di libertà alla “scelta politica” che deve esplorare potenzialità e convenienze dell’innovazione e i suoi riflessi sia sulla qualità del “prodotto finale”, sia sulle relazioni di lavoro nell’organizzazione rinnovata. La scuola, l’organizzazione dei processi di insegnamento e apprendimento, non si sottraggono a tale a tale impegno. Le numerose riflessioni sul tema che anche su Education 2.0 vengono spesso riproposte, e, per quanto mi riguarda, anche una recente e sufficientemente ampia ricerca sul campo, ripropongono il tema come segnale di una “crisi storica” e di una svolta, anche di paradigmi di pensiero, che essa pone all’ordine del giorno: come affrontare il “passaggio” che la stessa diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione ripropongono come possibile/necessario alla organizzazione dei processi di apprendimento e dunque del sistema di istruzione. Nessun automatismo come premesso: la tecnologia fa emergere, come attraverso una lente di ingrandimento, l’obsolescenza di un modello organizzativo che da tempo ha segnalato l’esaurimento della sua “funzione storica” esercitata positivamente in altra fase, quella della sfida primaria del realizzare l’istruzione per tutti. Garantire il mantenimento di tale sfida storica significa oggi “cambiare paradigma organizzativo” utilizzando sensatamente le risorse che la “rivoluzione microelettronica” ci mette a disposizione.
Alcune notazioni che emergono direttamente dall’esperienza.
LE DIVERSE FORME DELL’APPRENDERE
Molto sbrigativamente, con l’efficacia mediatica di uno slogan indovinato, ma forse con impropriatezza proporzionale ad essa, cataloghiamo la questione sotto l’etichetta dei “nativi digitali”. In realtà
1. L’interrogativo fondamentale che viene rivolto a chiunque si occupi, professionalmente o meno, di “formazione”, in particolare di “formazione di base”, è quello di come realizzare una nuova e diversa “mediazione” tra forme dell’apprendere che sono antiche quanto l’uomo. Per sintetizzare e schematizzare: la modalità “sequenziale e analitica” e la modalità “simultanea e sintetica”. Le tecnologie della comunicazione e dell’informazione sembrano dare grande potenza effettuale al secondo approccio (e spesso tale “potenza” cattura tutta la nostra attenzione); ma ottengono i più rilevanti risultati se tale potenza si coniuga con una avveduta mediazione con la prima. I docenti che stanno sperimentando sul campo, quando superino la falsa alternativa tra “apocalittici e integrati” si misurano con tale compito pedagogico di “mediazione” tra stili di apprendimento. Si delinea qui un campo di ricerca “vera” (non basta la “pubblicistica”, occorre il laboratorio sul campo) per delineare il carattere di tale “mediazione, le sue ragioni pedagogiche, psicologiche, “produttive” rispetto al compito fondamentale della formazione che è la realizzazione “dell’adultità del soggetto” (la podestà di assegnare significati).
2. La “rivoluzione microelettronica” ha, dapprima lentamente, oggi tumultuosamente e clamorosamente, decostruito “l’enciclopedia”. Cioè l’ordinata tassonomia (e gerarchia) del sapere che l’istruzione aveva (ha) la funzione sociale “specializzata” di riprodurre. (il curricolo). Oggi la sfida è organizzare un “curricolo senza enciclopedia”. Se si vuole una diversa ricombinazione in chiave formativa (altro aspetto della “mediazione” di cui sopra) di epistemologia e di ermeneutica. A partire dalla considerazione che i circuiti di produzione e riproduzione dell’informazione e dei saperi hanno a disposizione una “potenza strumentale” che toglie “centralità” all’istruzione formale (quella dei “sistemi”) nella riproduzione del sapere. È evidente che un “curricolo senza enciclopedia” decostruisce innanzi tutto le tassonomie delle specializzazioni e delle ripartizioni dei saperi, delle discipline e dunque anche (e soprattutto) degli stessi “profili classificatori” delle competenze dei docenti. Quanto a dire dei carattere e delle relazioni del lavoro che anima l’organizzazione della scuola.
L’AMBIENTE DI APPRENDIMENTO
L’ambiente, come in biologia, è l’insieme integrato di spazio, tempo, popolazioni e relazioni tra esse. Così è anche per la scuola. L’impulso innovativo che proviene dalla tecnologia investe tutte queste dimensioni. In particolare
1. Sono del tutto evidenti, anche nelle esperienze parziali di questi anni, le contraddizioni che emergono tra una efficace esplorazione delle potenzialità tecnologiche e le sequenze operative che sono tradizionali della scuola. Le sequenze disciplinari, temporali (le ore di lezione), ambientali (le classi come contenitori ordinati e separati) appartengono ad un modello organizzativo nel quale la scuola era “pensata” (in particolare i livelli secondari) prima ancora che strutturata, come la “fabbrica” dell’istruzione. La segmentazione e sequenzializzazione delle fasi di lavoro appartiene ad un paradigma tayloristico (un taylorismo “imperfetto”) appropriato ad altra tecnologia ed a altro “prodotto”. Per proseguire la metafora una assennata integrazione tra tecnologie e processi di apprendimento e insegnamento ci propone la suggestione di un modello “toyotista”. Un nucleo di lavoro collettivo, responsabile del prodotto finale, in grado di ripartirsi in autonomia tempi e sequenze e vincolato a risultati di qualità. “L’isola” invece della “catena”. Naturalmente quali implicazioni estese (dalla classificazione del lavoro, alla sua qualità e quantità, alle responsabilità personali e collettive) abbia l’esplorazione di quello che metaforicamente chiamo “toyotismo” nella scuola è impresa non semplice. Basti pensare a questioni come le classi di concorso, i tempi di lavoro dei docenti, le cattedre, gli “organici”… insomma l’intera “incastellatura formale” del lavoro scolastico, e la possibile declinazione di un parametro di “flessibilità”. Ma occorre affrontarla e risolutamente come “disegno consapevole”, prima che sia la “forza delle cose” ad imporla, e dunque finisca per avere il carattere di “rivoluzione passiva”.
2. Processi di apprendimento e insegnamento ristrutturati in tale direzione collidono non solo con “le sequenze” produttive, ma anche con gli spazi e i tempi complessivi (i contenitori della vita delle popolazioni che animano l’ambiente scuola). Gli spazi fisici innanzi tutto. Se c’è qualcosa che emblematicamente rappresenta la logica della scuola come “fabbrica” dell’istruzione sono per esempio i parametri spaziali (mq per alunno) che applichiamo alle aule. Essenziali naturalmente, ma figli di una impostazione architettonica “funzionalista” (cattivi allievi lecourbiesieriani) che guarda piuttosto alle “funzioni” che agli abitanti (ma non è così anche nell’edilizia popolare?). Anche qui un campo di ricerca di grande portata (ma noi ci attardiamo sui “dimensionamenti”) non riassumibile qui se non con una metafora: dobbiamo passare dalla scuola come “fabbrica” dell’istruzione alla scuola come “città” dell’istruzione, e dunque ripensare a spazi e tempi che “contengono” la pluralità delle manifestazioni di vita delle popolazioni che vi abitano.
LA SPESA E L’INVESTIMENTO IN ISTRUZIONE
Anche su queste pagine sono spesso intervenuto mettendo in luce la differenza concettuale e pratica tra “spesa per la scuola” e “investimento in istruzione”.
1. Per schematizzare: la linea storica dell’impegno di risorse economiche nella scuola degli ultimi cinquanta anni è stata orientata al “labour expensive”. Si tratta di passare ad una impostazione “capital intensive” (che non significa automaticamente “labour saving”…), rimarcando la differenza fondamentale tra spesa e investimento che è rappresentata dal fatto che la categoria dell’investimento richiama necessariamente la misura della sua “redditività”. Le iniziative che, più che lodevolmente, si stanno realizzando verso la scuola digitale (dal progetto cl@ssi2.0 a quello Scuole2.0, a quelle che le singole scuole nella loro autonomia decidono in termini di politica di investimento: sia pure mortificata dalla stretta attuale nelle risorse vi è una realtà significativa in tale direzione), portano in evidenza una problematica, in sé preesistente, circa i criteri, le modalità e le condizioni dell’investimento pubblico (a partire dal Ministero) e le condizioni per realizzare differenziali di redditività significativi (la valutazione dei risultati). L’osservazione sul campo di tante esperienze suggerisce di considerare i limiti di redditività che comporta il mero “orientamento all’offerta”, tradizionale del nostro paradigma amministrativo. In sostanza un Ministero che “eroga e autorizza” sulla base spesso di parametri statistico-quantitativi, ed una scuola autonoma che “aderisce a progetti” eterodefiniti. La redditività dell’investimento e i suoi differenziali positivi appaiono invece legati alla misura della corrispondenza tra l’investimento erogato e la “propensione propria” all’investimento espressa dalla scuola autonoma. In altre parole alla ricongiunzione tra “politica dell’offerta” (il tradizionale modello di investimento pubblico) e “politica della domanda”. Il corollario fondamentale è quello che la ricongiunzione tra le strategie richiede il funzionamento efficace di un sistema riconosciuto e valicato di monitoraggio, valutazione, consulenza. Quello che nel mondo dell’impresa si chiamerebbe “sistema di services”.
2. L’esplorazione sul campo di un campione sufficientemente esteso di esperienze di didattica digitale, mi porta ad affermare che i differenziali più positivi di redditività dell’investimento sono si realizzano, come affermato, in coerenza con la misura della “propensione all’investimento” espressa dalle singole realtà scolastiche. Ma anche che quest’ultima è l’emersione di una domanda che va oltre la scuola stessa e investe invece il suo rapporto con la comunità locale, la “domanda dei cittadini”. Il fatto che la comunità viva e senta la scuola come “capitale sociale” proprio, da valorizzare e sviluppare. Mi pare che questo sia, in ultima analisi, il “fattore limitante” dei livelli di redditività dell’investimento. Per usare un’altra metafora che può schematizzare un ragionamento che richiederebbe altri spazi di trattazione, è da tale “fattore limitante” che dipende la creazione di condizioni che scongiurino le (storiche) “cattedrali nel deserto”. Una problematica, come si comprende, che riguarda sia il MIUR, sia il Ministero dell’Economia, sia quello per la “Coesione territoriale”, sia infine la politica scolastica delle Regioni e degli Enti Locali.
Si tratta solamente di alcuni spunti di riflessione. Li propongo anche sulla base di una certa irritazione che lo slogan sui “nativi digitali” mi procura. Ad un appassionato interlocutore che abusava di tale categorizzazione, pur nell’ansia di mostrarne le sorti magnifiche e progressive, ho ricordato recentemente che nella Storia, il destino dei “nativi” è sempre stato quello di essere sconfitti. Sterminati o fatti schiavi o, nella versione “buonista” relegati in più o meno confortevoli “riserve”. Le “metafore” hanno questa ricchezza e contemporaneamente “pericolo”. Slittamenti semantici che vanno anche al di là delle intenzioni di chi li usa. Ma noi siamo impegnati, per lo stesso lavoro ce facciamo, a disegnare il futuro per i nostri “nativi”. E allora sarebbe bene misurarci con gli impegni connessi.
Franco De Anna