L’arcivernice: Deduzione e induzione (cinquantaquattresima puntata)
“Maestro, le tabulae, dunque…”.
“Sì, Ramon, ma esse non bastano. Con l’osservazione di concomitanze o di mutue esclusioni non individuerai mai una legge della fisica”.
“Cosa manca, dunque, al metodo baconiano?”.
“Due cose essenziali. La prima è l’ambiente. Lo scienziato deve costruire un ambiente adatto, isolato, scevro dalle possibili perturbazioni esterne. Hai mai provato a lanciare una palla a favore di vento o controvento? Lo spostamento che ne risulta può essere diversissimo. E allora si capisce che per giungere alla legge di natura la tua esperienza deve essere in un ambiente senza vento, ossia affrancata da perturbazioni esterne. Così nasce uno dei concetti più fecondi e più imprescindibili della scienza induttiva, il concetto di ‘laboratorio’: un mondo asettico, quasi teorico, un mondo in un certo senso platonico, creato ad arte dall’uomo“.
“E la seconda?” chiese con impazienza Ramon.
“La seconda cosa è che la natura è un grande libro, che sta spalancato davanti ai nostri occhi, è verissimo; questo libro però non è scritto nel linguaggio umano, ma è scritto in caratteri matematici. Con semplici tavole tu non troverai mai una formula, neanche la più banale, nemmeno f = ma, la forza è uguale alla massa per l’accelerazione. Ecco allora il punto: prima della sperimentazione, tu devi formulare un’ipotesi espressa in termini matematici. L’esperimento te la confermerà o te la smentirà; ma il successo ti avrà fatto trovare una ‘legge scientifica’, non una vaga correlazione”.
“Bacone era dunque in errore…”.
“Niente affatto, Ramon; Bacone ha aperto un sentiero, individuando il tragitto, come spesso fa l’esploratore, quando si approccia a mondi nuovi. Spettava ad altri trasformare il sentiero in una strada”.
“Ma, Maestro, il risultato non potrebbe essere casuale? Voglio dire, non potrebbero esserci dei ‘falsi positivi’?”.
“Ecco un punto essenziale. La risposta è complessa. Per prima cosa, uno dei caratteri distintivi dell’esperimento deve essere la sua riproducibilità: devo poterlo replicare tutte le volte che voglio, e sempre con il medesimo esito. E questa è la prassi scientifica. Sul piano filosofico, tuttavia, l’esito andrebbe controllato ad infinitum, o, meglio, per tutti gli infiniti casi possibili, perché potresti avere infiniti casi favorevoli e al contempo infiniti casi contrari; e questo tipo di verifica non può appartenere all’esperienza umana. A rovescio, un solo caso contrario basta ad inficiare una teoria, per le leggi della logica: se tutti gli A sono B, è sufficiente che io mostri un B che non è A per dichiarare l’ipotesi fallace. Ma questi esiti sono quelli della tua era, non della mia: potresti parlarne più proficuamente con Karl Popper”.
Ramon meditò di farlo quanto prima. Il discorso era estremamente affascinante, toccava direttamente la possibilità di una scienza induttiva.
“Dobbiamo concluderne che ha ragione Hume, il principio di induzione non è dunque mai certo…”
“Bisogna distinguere, Ramon. Ci sono vari tipi di induzione. Hume ha certamente ragione per quanto riguarda la così detta ‘induzione empirica’: dati N casi favorevoli, per N grande a piacere, nulla risulterà dimostrato per N+1. Ma, come già aveva capito Aristotele, c’è anche una induzione che potremmo chiamare ‘matematica’, la quale altro non è che una forma diversa di deduzione, anche se la strada è percorsa a ritroso. È quella che diventa, modernamente, l’induzione completa, principio dell’aritmetica e della computazione. In una posizione intermedia si colloca la mia, quella che ti ho spiegato sopra, il così detto ‘metodo galileiano’; soltanto per questa via possiamo aggredire i segreti della natura, cioè del mondo reale; perché la logica e la matematica non parlano di questo mondo, ma di ogni mondo possibile”.
Ramon pensò che, nella storia del pensiero scientifico, c’erano due punti di discontinuità: la rivoluzione di Euclide e quella di Galileo. L’insorgere della scienza deduttiva e l’insorgere di quella induttiva. Fu preso così da un’ansia di entrare più addentro, umanamente, nell’uomo che gli stava davanti; e gli venne naturale cercare di capire, oltre che la sua grande forza intellettuale, i suoi sentimenti, il suo patire, l’obbligo dell’abiura, la sofferenza data da quel cannocchiale puntato nei cieli di un mondo limpidamente copernicano, che tuttavia fu costretto a ‘vedere’ come tolemaico. La sofferenza del vero che non si può dire… Prese così il coraggio a due mani, e cominciò:
“Maestro…”
Ma l’augusta figura, quasi per ritegno, si era di già dissolta.
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Maurizio Matteuzzi