L’arcivernice: La voce, l’icona e la rappresentazione (quarantaduesima puntata)
Di fronte alla parola “gatto” ognuno di noi pensa a un qualcosa di almeno un po' diverso; invece, nel comunicare, noi facciamo appello a un gatto, a un idealtipo che deve essere lo stesso per tutti, altrimenti non ci capiremmo: è un gatto inesistente, non è nessun gatto e nel contempo è ogni gatto.
C’era Handimatica a Bologna. Ramon e Giulia andarono assieme, alla tavola rotonda della mattina. Claudio Imprudente fa un bell’intervento, denso della solita intelligente ironia. Il luogo, la fondazione Aldini Valeriani, immenso. Un dedalo, un labirinto vero, per fortuna squadrato. Modernissimo. A Ramon venne naturale il parallelo con il luogo del recente convegno di Educationduepuntozero, dove pure erano stati assieme lui e Giulia. La bellezza di un palazzo mediceo del Cinquecento, gli arredi d’epoca, i loggiati sfarzosi e inutili, le volte affrescate, gli arazzi di sei metri. Lo sfarzo del Rinascimento italiano, inimitabile, incomparabile; la commistione del classico, con il suo senso dell’armonia simmetrica, equilibrata, centripeta, perfetta nei suoi equilibri, con la potenza della pittura e della scultura, forse le più perfette, sul piano della potenza, di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Sì, probabilmente, pensò Ramon, questo aspetto aveva giocato un ruolo decisivo nella sua scelta di venire a studiare proprio in Italia. E, dall’altro lato, l’architettura funzionale moderna, aule e luoghi rettilinei, soffitti molto più bassi, pareti bianche nella loro neutralità, un computer o un’altra diavoleria ad ogni angolo, e corridoi talmente lunghi che non se ne vede l’esito; un teatro interno alla scuola; i luoghi degli espositori di tecnologie, le più diverse, le più innovative, le più inverosimili. A suo modo anche quel posto era grande, era incredibilmente grande. Ma tutt’altro che sfarzoso. Ramon pensò allo strano modo con cui si era distribuita la ricchezza, nei secoli. Alla potenza dei Medici, di una famiglia che può esprimere papi, zarine, e trattare il Re d’Inghilterra come oggi una banca tratta un impiegato che chiede un mutuo. In una stanza del palazzo Medici Riccardi Ramon aveva bene osservato l’effige di Cosimo, il banchiere forse più ricco e più potente di ogni tempo. Lì dov’erano ora, nessun ritratto, nessun quadro, ma schermi ultrapiatti, a volte giganteschi, anche loro vivi, pur se a loro modo, come lo sguardo accigliato di Cosimo, vivi in quanto mai statici, mai domi, sempre in perenne cambiamento, là dove lo sguardo di Cosimo sarebbe stato lo stesso per sempre. L’architettura esprime il modo con cui si accumula, o si distribuisce, o comunque si manifesta, la ricchezza. Che ricchezza era quella di Cosimo? Una fortuna che non può avere paragoni nella contemporaneità. Oggi anche la più grande delle ricchezze ha qualcosa di più effimero, di meno fondato. Una grande fortuna può essere dissipata in una sola generazione, e i fattori di rischio sono meno governabili dalle persone, le fortune stesse sono in un qualche senso impersonali: di chi sono le grandi multinazionali? Anche il vero ricco ne possiede una frazione irrisoria. A Ramon venne in mente la Lehman Brothers, il più grande fallimento della storia di tutti i tempi. La finanza disancorata dall’economia, diciamo ora. E la ricchezza di Cosimo, com’era? Disancorata dalla proprietà terriera, per la prima volta: il Re d’Inghilterra aveva potere su un territorio dieci, venti volte la Toscana, ma doveva chiedere a Cosimo: lì era finito il feudalesimo. E allora ecco che l’architettura rispecchia l’immensità dello sfarzo. Meglio Giuliano da Sangallo o Le Corbusier? Nessuno dei due, naturalmente, pensò Ramon. Poesia e razionalità fanno due mestieri diversi; e grazieadio si danno entrambe nella Storia, si srotolano nel divenire, anche se a singhiozzo e in modo spesso ingovernabile e a volte persino incomprensibile.
Con la testa piena di cose, Ramon osservava in modo meccanico, con ammirazione, l’interprete LIS, e continuava a chiedersi come potesse stare al passo del fluire del parlato: strana semantica, né totalmente fonetica né totalmente ideografica, il labiale a soccorrere l’assenza del “cherema”, l’espressione del viso a determinare il registro comunicativo, l’interrogativo ad esempio, o l’enfasi sull’emozione positiva o negativa (viso ridente o viso corrucciato); per certi versi, come gli “smiles” nelle email. Così perso in questi pensieri, e ancora legato ai retropensieri di cui s’è detto, Ramon fece quasi fatica a capire quanto stavano comunicando: la sera ci sarebbe stata la proiezione del film “Il discorso del Re”, nella versione fruibile tanto per non vedenti che per non udenti. Non si poteva mancare, anche se, dopo un’intera giornata di congresso, e relazioni stimolanti, il nuovo impegno pesava. Ma poteva dirsi un impegno la visione di un film che aveva vinto quattro Oscar? Giulia l’aveva già visto, Ramon no; e la curiosità era tanta. Come rendere fruibile l’immagine a un cieco? E questo, senza rallentare il flusso, cioè inserendosi nei tempi di fruizione dell’utente vedente…
Prima della proiezione parlano brevemente i curatori della particolare edizione. Introduce Angelo Errani, e le considerazioni sono da filosofo del linguaggio, oltre che da pedagogista: la convenzionalità del simbolico versus l’iconicità della comunicazione visiva. Così, mentre nell’interpretazione della parola io non posso prescindere dall’intellettualizzazione, dall’attraversamento del “nous”, perché solo per un preaccordo sociale posso recuperare il “páthema”, nella visione io ho la “rassembranza”, l’iconicità immediata, la somiglianza fattuale, la coincidenza almeno prevalente delle linee e dei colori, della stessa Gestalt, di fronte alla quale ho assai meno difesa: dalla retina, mi entra direttamente nel cervello, mi eccita i neuroni, mi sconvolge le sinapsi, e non ci posso fare niente.
Il film comincia. Una voce narrante, dalla dizione perfetta, descrive con estrema sinteticità le immagini. Contemporaneamente scorrono i sottotitoli. Ramon si accorge che, pur sentendoci benissimo, non può fare a meno di leggere anche i sottotitoli. Che cosa vorrà dire? Così come sente ovviamente anche la voce narrante, quell’io impersonale, quell’io-penso kantiano che pare quasi un’insperata conferma dell’esistenza di un mondo esterno, luogo dell’oggettivizzazione dell’esperienza. Meglio, pensa Ramon, molto meglio che il mondo esista, e che non ci sia solo io; gli viene automaticamente da stringere la mano di Giulia, per un’ulteriore conferma.
Ecco, il film è finito, Re Giorgio VI è riuscito a fare il discorso, ha vinto la balbuzie, ha infiammato il suo popolo. Esperienza magnifica, accumulazione di tante domande. Ramon pensò a quanti ciechi c’erano in quella sala. E pensò che, per quanto la descrizione della voce narrante fosse stata la stessa, certamente ognuno di loro si era dato una rappresentazione interna diversa. Chissà com’era il viso di Lionel nelle varie menti. Un fatto privato. Quasi l’opposto del paradigma aristotelico, secondo cui le cose che sono nella voce sono diverse per tutti, ma le immagini mentali le stesse. Qui viceversa, tutti hanno sentito la stessa voce, ma generato visi diversi. Sarebbe fantastico potere guardare dentro alle menti, potere vedere se questi mille visi hanno qualche tratto in comune, e quale. Negli schemi della semantica ordinaria, pensò Ramon, si dà la rappresentazione privata: di fronte alla parola “gatto” ognuno di noi pensa a un qualcosa di almeno un po’ diverso; invece, nel comunicare, noi facciamo appello a un gatto, a un idealtipo che deve essere lo stesso per tutti, altrimenti non ci capiremmo: è un gatto inesistente, non è nessun gatto e nel contempo è ogni gatto. Qui il processo era avvenuto nella direzione opposta: una voce narrante, una descrizione condivisa, e da lì la generazione di tante rappresentazioni private. Ramon pensò che doveva quanto prima parlare con Frege, affrontare direttamente “Über Sinn und Bedeutung”. A quell’ora e da soli, era veramente troppo per quel giorno.
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Maurizio Matteuzzi