L’arcivernice: L’ironia, la metafora e la legge animale (trentesima puntata)
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“Piena di sensazioni di paranoie e di insidiose nevrosi, senza nemmeno usare il pennello verso direttamente sulla fotografia di Lorenzo Milani l’Arcivernice, come un denso sciroppo”.
“Di cosa speravano di prosciugare ancora uno studente Erasmus?” rifletto a voce alta: “non è che possa trattarsi di uno scherzo?”.
Ramon mi sta passando velocemente davanti, diretto verso la porta. “Credevo che gli scherzi dovessero far ridere”, dice ovviamente, sbattendosi l’uscio alle spalle.
Mi guardo intorno desolata, gli oggetti, i vestiti di Ramon sparsi e ammucchiati sul pavimento in un brutale disordine. Ramon mi aveva chiamata che ancora era quasi notte, molto agitato, dicendo che dovevo correre da lui, che aveva trovato tutto sottosopra… Però sembrava intenzionato ad andare eroicamente all’università anche quella mattina.
Rimasta sola là in mezzo, comincio a girare per la stanza a casaccio.
Cercare di rimettere un po’ in ordine non è una buona idea, l’ho letto tante volte nelle trame giallistiche dei racconti polizieschi: non bisogna toccare mai niente, prima dell’arrivo delle forze dell’ordine. Non ho nemmeno il coraggio di risciacquare al lavello le nostre due tazzine del caffè.
Secondo l’infelice conclusione di Ramon, mi spetta adesso restare qui fino all’arrivo di quei tipi, la polizia, o i carabinieri. Poi dovrò frantumare una realtà quotidiana per farla analizzare da loro. Dovrò sorbirmi un sacco di ingerenze, perché alla fine possano farci credere di aver ricostruito una realtà più intera e sana di quella di prima. Quelle gran verità che senti dal lettino degli psicoterapeuti, o quelle di alcuni politici, o vengono dalle cattedre di certi professori.
Quando arrivano loro, nei vetri è ancora buio fra le trame dei lunghi rami neri che grattano alla finestra con mani adunche per voler entrare. Il boato, lungo le scale, è di scarponi pesanti, da assetto antisommossa.
Dunque so già che da adesso dovrò tenere a bada tutta la mia dialettica e la loro. Da “dià légo”, dialettica. È come dire “parlo fra”, ma anche “parlo contro”. Dovrebbe poter esserci divergenza di opinioni tra persone che “parlano fra” loro. Ma qui ti rivolgono domande a senso unico. Un po’ come i quizzoni per passare agli esami. E certamente – ma forse loro non lo sanno neanche – ancora abbeverati a qualche cosa che prende dalla teoria dell’atavismo criminale. E alla fine si inceppano trattando stimoli linguistici come l’ironia, l’umorismo, la metafora…
Mi viene in mente il dialogo di Alice con la Regina Rossa: “Tu che conosci le lingue”, le chiese la Regina, “come si dice in francese Violin-di-di”. “Se tu mi dici cosa significa Violin-di-di, io ti dirò come si dice in francese”, rispose Alice. “Le Regine non mercanteggiano!” disse sdegnata la Regina Rossa.
Ecco, ho sbagliato nell’altra puntata, a evocare Cesare Lombroso. Avessi incontrato, che so, Jacques Lacan, mi avrebbe fatto riconquistare una “parola piena”, in cui potersi sempre riconoscere. Oppure John Dewey, allora qui il rapporto, il parlare delle cose, non sarebbe fondato su diffidenze, paure, ma sulla interazione libera fra persone.
Dico tanto di voler rubricare i luoghi comuni e poi casco su Lorenzo Milani. “I care”, il tuo problema è il mio, mi riguarda, ti accudisco… Un po’ come l’alveo materno, condurre per mano l’interlocutore attraverso un processo di interpretazione, un dialogo confrontante verso la scoperta del contenuto dello stato mentale dell’altro.
Sui vetri si sta già stampando un cielo sfacciatamente blu, mentre il rumore degli scarponi pesanti rimbomba perfido come un nido di vespe per la stanza di Ramon, nell’affrettata ricerca del “modus operandi” di ladruncoli, dicono loro, occasionali.
Strano però che Ramon abbia potuto attrarre una banda di ladri, con quel suo look obbligatoriamente di basso profilo. Quale bottino potevano aspettarsi di trovare, qui, in questa camera piovosa di studente fuorisede? Lo scalpiccìo marziale intanto si allontana, presto rimango sola. Mi avvicino esitante all’acciaccato barattolo dell’Arcivernice. Ancora dunque? Sono già stralunata, ben consapevole di nuove ossessioni, compulsioni che non sono più in grado di tenere a freno. Eppure sono certa, non credo negli zombi, né al transumanare di anime vaganti da un posto all’altro. Per spregio di me stessa, piena di sensazioni di paranoie e di insidiose nevrosi, senza nemmeno usare il pennello verso direttamente sulla fotografia di Lorenzo Milani l’Arcivernice, come un denso sciroppo.
“Non la verità unica, dunque, Professore, non il canone infine, ma forse la disposizione umana all’empatia, i piccoli riconoscimenti, e l’accoglienza”.
Lui, quel suo sguardo dolce e severo. Spesso ci insegnano a fornire soltanto performance faticose e modeste – penso – ci insinuano canoni indicatori, implicazioni parassite. Restringimenti arbitrari, come quando si pone al bambino la domanda tranello: pesa più un chilo di paglia o un chilo di ferro? Cadrà in inganno, perché nella parola “paglia” è insito il connotato della leggerezza trattato come attributo assoluto anziché come concetto relativo.
“Scorgere con occhi torvi soltanto le carenze, scartare quelli che ‘fanno fatica’, abbandonare i più deboli…”. Queste parole mi riportano alla realtà.
“Competizione indotta, Professore? E al prezzo di quanta solitudine!” rispondo amaramente.
“Basta guardarsi indietro”, lui conferma; nella sua voce tagliente, qualche residuo di raffinatezza potente e cristallina che resta impressa: “in quel nostro comune passato neanche troppo lontano. I pasti cannibalici… Adesso quegli orrendi banchetti hanno preso altre forme!”
“Allora dunque”, gli dico in un sussurro, “l’equivalente cannibalico oggi è l’incentivo alla competizione, all’annientamento dell’altro, della sua componente più giovane, innovatrice, entusiasta. Perché devi arrivare alla valutazione migliore, al traguardo per primo”.
“Si può sempre zoomare di più, Giulia, si può cambiare il fuoco, allargare, e nella lente analizzare chirurgicamente anche se non più i corpi, se non le facce con stampigliati dei segni, delle mandibole enormi, o una fronte sfuggente… Si considerano adesso altre cose, ma per poi sottoporle ad analogo trattamento!”
“Così c’è sempre qualcuno che viene depredato, lasciato indietro, escluso”, scandisco piano abbassando la testa, “certo è un modello altrettanto selettivo…”.
Sollevo un po’ lo sguardo in attesa di un’altra di quelle sue risposte nette e coerenti, ma un forte colpo di vento spalanca i vetri ormai pieni di luce.
Sembrava che il sole e il tempo avessero cominciato a sciogliere quella bella figura fino al completo suo disfacimento, lasciando solo una piccola goccia brillante sul vetro. Che si era poi smarrita tremolante, dimenticata del tutto in quei colori abbaglianti.
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Giulia Jaculli