Sicurezza scolastica, antisoffocamento e storie di vita
La rilettura di un corso sulle prime manovre per salvare gli alunni da casi di soffocamento ispira la narrazione intrecciata di una storia fatta di cultura, di bellezza e di momenti di vita.
A questo corso sull’antisoffocamento ci dovevo venire, la dirigente scolastica ci teneva troppo, aveva capito che anche il Ministero ci credeva e subito si era messa in prima linea.
Io mancavo a tutti gli incontri inutili che organizzava…
Avevo deciso per questo di essere presente, anche se ritenevo che ben altro si sarebbe dovuto fare a scuola.
Così stavo preparando “per conto mio” qualche cosa che poteva essere utile nel nostro istituto dove si doveva poter parlare di bellezza e di legalità.
Sarei partito dal film dell’Oscar…
Era cominciato! Mentre cominciavano a sproloquiare sui dati del fenomeno dei soffocamenti, mi misi a rileggere il testo da cui volevo partire per l’iniziativa e l’incontro con i ragazzi.
Il guaio di un istituto comprensivo era che si lavorava troppo per i bambini e troppo poco per i miei ragazzi.
Mi pareva chiaro che su questi episodi di soffocamento si poteva verificare soprattutto a mensa, con i bambini piccoli, e quindi non c’entravamo niente noi docenti delle superiori.
Mi misi a preparare quel testo per la mia lettura recitata, e intanto buttavo un occhio all’infermiera che era davvero una bella donna.
Bravo questo Peppino Impastato, un intellettuale che ce ne sono pochi. Aveva detto una bella frase, intelligente “Se s’insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. la morte…”.
[Ci si abitua con pronta facilità] all’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso da operazioni speculative con tutto il loro squallore…, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima.
E ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre.
È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non s’insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore” (Peppino Impastato).
Ecco da dove volevo partire per aprire uno spazio interdisciplinare.
Senza magari parlare troppo del film “La Grande Bellezza”!
L’infermiera, davvero una bellissima donna, ci presentò “Peppino”, che era il nome che aveva dato al manichino che usava per farci vedere i movimenti più opportuni.
“Non scholae, sed vitae dìscimus” si era azzardata a dire e ci aveva spiegato che era un motto in latino.
Osò pure tradurcelo: “Non impariamo per la scuola, ma per la vita”, disse, nel senso che s’impara non per la scuola o per un insegnante, ma per le occasioni e le difficoltà che si affronteranno nella vita.
Come i casi di soffocamento dei bambini.
Avrei voluto dirle come il pittore Apelle “Sutor, ne supra crepidam” che il calzolaio non faccia osservazioni più su delle scarpe… o in questo caso, “ne supra strangulationem”. Tutto si può dire con il latino!
Comunque in realtà il detto originale era “Non vitae, sed scholae dìscimus”, era nelle Epistole a Lucilio di Seneca e aveva un significato opposto, dato che Seneca non credeva all’utilità dell’insegnamento scolastico e diceva che “addirittura negli studi soffriamo d’intemperanza come in ogni altra attività: non impariamo per la vita, ma per la scuola’.
Brina, la mia collega di Storia dell’arte davvero s’impegnava con il manichino Peppino e anche a me toccò fare le manovre.
Era brava oltre che bella l’infermiera; ebbe pazienza con me, che non ero tagliato per quelle cose pratiche.
Brina invece ebbe i suoi complimenti; e glieli ripeté quando ci salutò per correr via con il pediatra e la mia preside che gli offriva un pranzo di tasca sua alla locanda del risparmio, vicino la scuola.
C’era la pausa.
“Vieni, ti offro la tua solita insalata ricca” invitai la Brina, reduce dai successi del disostruzionismo. Le volevo parlare del progetto che avevo in mente sulla bellezza, la legalità e Peppino Impastato. La portai da Bruno.
Si chiamava Cecconi Bruno, proprio come un vecchio personaggio di Paolo Panelli a Canzonissima… o a Studio Uno. Lei non si ricordava né di Cecconi Bruno né di Studio Uno.
Altra generazione, ormai mi conveniva andare in pensione appena la Fornero me lo permetteva. Era il momento in cui Finalba, la barbona veniva al bar; veniva tutti i giorni per utilizzare il bagno e per pranzare. Ci cenava pure! Giornaliero cornetto alla crema con caffè macchiato e pieno di zucchero.
Cecconi Bruno era “politically correct”, la trattava come una cliente qualsiasi, anche se dopo che era uscita dal gabinetto, la figlia, per soddisfare gli altri clienti più schizzinosi, andava a disinfettare tutto.
Sorridendo Bruno per me portò i “cani” caldi senape&ketchup e per Brina l’insalata ricca.
A un certo punto, con la forchetta in mano la collega storse il naso. Un colpo d’aria ci aveva portato al tavolino una zaffata di afrore e un fortore di scomoda povertà.
Mi dedicai al pasto poco salutista. Dallo specchio vidi che Finalba si portava le mani alla gola, come in un’icona che, veramente, avevo visto da poco.
Soffocava.
Tutti erano impietriti, Brina pure: era tenuta lontana dalla puzza o da un attacco di panico, non si capiva. Doveva essere il panico! Così toccò a me lasciare gli hot dog e penetrare nell’odorosa sfera privata di Finalba… in fondo i professori di Latino non ci mettono molto a imparare, anche le cose pratiche.
Sputò il boccone che le era andato di traverso. Cornetto alla crema misto alle noccioline che prendeva col cucchiaino dalla coppa per gli aperitivi.
Se ne andò subito, immediatamente, seccata dalla gente che la guardava e dalle mie manovre troppo abbraccianti.
Era andata, comunque!
Brina poi mi ascoltò quasi interessata mentre pontificavo sul mio progetto e dicevo anche “che in fondo avevano ragione i pediatri, gli infermieri e la mia Di Esse”.
“Primum vivere, deinde philosophari”, che significa “Prima vivere e poi filosofare”, dato che prima viene la vita terrena e il suo mantenimento, poi la filosofia e il nutrimento della mente.
Una frase tradizionalmente attribuita a Thomas Hobbes e usata estensivamente per richiamare a una maggiore concretezza e a una più grande aderenza agli aspetti pratici della vita. In quel momento mi pareva giusto condividerla… L’avrei messa anche su Facebook, la sera. Anche se mi convince ancora di più quanto disse Jean Lucien Arréat che “vivere e filosofare sono la stessa cosa…”
Fu così che ci proponemmo come volontari per diffondere queste competenze per la “disostruzione antisoffocamento”.
Anche la collega Brina, in fondo, era una gran bella donna.
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Immagine in testata di keibr / Flickr (licenza free to share)
Luigi Calcerano