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Il poeta decadente: quando essere un “emarginato sociale” diventa un pregio

Pubblicato il: 16/05/2014 14:39:08 -


Riflessioni di un giovane liceale su quegli aspetti di dissenso e di emarginazione sociale che caratterizzarono gli autori che si sono riconosciuti nel movimento letterario del decadentismo.
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Sin dai tempi più remoti, gli uomini di lettere sono sempre stati personaggi straordinari. Abili nell’arte della parola e con la testa sempre piena di pensieri, hanno affascinato generazioni e generazioni di persone come noi giovani studenti.
Tra le lunghe e meravigliose pagine della letteratura mondiale possiamo scovare scrittori molto diversi tra loro, ciascuno con le proprie caratteristiche e con i propri ideali. Per molto tempo essi hanno goduto di grande stima e riconoscimento da parte del pubblico, ma anche per loro non sono mancati i momenti bui. Testimoni di questa “crisi del letterato” furono i decadenti, che sperimentarono sulla loro pelle cosa significa essere messi da parte, essere svalutati e spesso anche dimenticati.
“Il suo desiderio di sottrarsi ad un’odiosa epoca di tangheri indegni…”, con queste parole il grande scrittore Joris Karl Huysmans esprime il sentimento del protagonista del suo romanzo, “À rebours”, Jean Floressas Des Esseintes, nei confronti della società in cui vive. Ma tale sentimento è la trasposizione letteraria di quella stessa insofferenza che provavano lo stesso Huysmans e tutti gli altri decadenti nei confronti della loro epoca.
Ma perché nutrivano questa intolleranza? Per rispondere a questa domanda fondamentale occorre mettere in luce il contesto storico in cui questi artisti vissero.

Il periodo di riferimento è la fine del XIX secolo; in questi anni proseguiva in maniera crescente quello sviluppo industriale ed economico che già era iniziato verso la meta dell’Ottocento. La conseguenza immediata del progredire della ricerca scientifica e tecnologica e delle conseguenti applicazioni in campo produttivo fu che tutte le società e i Paesi coinvolti sostituirono, a ogni tipo d’interesse, l’interesse economico. In questo modo furono abbandonati tutti i valori della tradizione umanistica e l’obiettivo primario di ogni cittadino divenne il guadagno, la ricerca instancabile e quasi ossessiva del denaro.
In questa situazione, l’artista perse il suo primato sociale di “guida del popolo”, perché la sua arte, non essendo un bene materiale ed economico, non portava ad alcun guadagno. Egli iniziò a essere considerato un “ozioso”, poiché non s’impegnava in alcun lavoro pratico e remunerativo, e di conseguenza cominciò a essere posto ai margini dell’intera comunità.
È in questo contesto che bisogna inserire l’esperienza dei decadenti. Essi soffrirono del nuovo assetto sociale e della conseguente svalutazione dell’arte, ed è proprio per questo che risultarono personalità isolate. Questi artisti non si rispecchiarono mai nei valori volti verso il guadagno economico e allo stesso modo rifiutarono la corrente filosofica che era alla base dello sviluppo tecnologico-scientifico: il positivismo.

Da questa breve analisi si possono già comprendere meglio le motivazioni che giacciono dietro le parole di Huysmans, il quale, a testimonianza del suo rifiuto verso la società, giunge a scrivere che il suo protagonista ha “il bisogno di non vedere più l’umana effigie sguinzagliata per le strade in cerca di denaro”.
Questo rigetto si traduce nell’atto pratico in un isolamento, un auto-esilio, che porta i decadenti a emarginarsi dalla società. Il loro è però un isolamento sdegnoso e “aristocratico” nei confronti della vile borghesia, che ricerca il guadagno economico, ma non è in grado di dedicarsi alle realtà più importanti per l’animo umano. Questo privilegio, che loro stessi si attribuiscono, è testimoniato dal grande Baudelaire, che paragona il poeta all’albatro: esso si sente a suo agio solo in cielo, al di sopra di ogni altro essere, mentre sulla terra è un esule schernito.
I decadenti si sentono perciò delle “personalità speciali”, dotate di una sensibilità più alta rispetto agli altri esseri umani, che li porta a vedere cose che sono impossibili da scorgere per l’uomo comune. “Io dico che bisogna essere veggente”, afferma a questo proposito Rimbaud, il quale crede che il poeta sia colui che può vedere oltre la realtà apparente. Questa capacità, secondo i decadenti, è dovuta a un modo di conoscere ben distante da quella scientifica tipica del positivismo.
Essi credono che, per giungere alla vera conoscenza, l’uomo debba abbandonarsi alla dimensione irrazionale. Il sapere non deriva più dall’analisi scientifico-razionale del mondo, ma dall’intuizione prelogica e prerazionale che scaturisce dagli stati di alterazione dell’essere: la malattia, il sogno, la follia, l’allucinazione, ecc.
Questa sfiducia nella scienza positivistica, a favore della realtà misticheggiante e irrazionale, è ben espressa anche da uno dei più grandi artisti decadenti italiani, D’Annunzio. Egli scrisse in un articolo apparso su “La Tribuna” nel 1893: “La scienza è incapace di rendere la felicità alle anime in cui ella ha distrutto l’ingenua pace… non vogliamo più la verità. Dateci il sogno. Riposo non avremo, se non nelle ombre dell’ignoto”.

In questa breve analisi si è cercato di mettere in luce quali siano i motivi per cui si può parlare di “emarginazione sociale”, quando si fa riferimento agli artisti decadenti. Essi ebbero il merito di avere espresso quel dissenso necessario verso un mondo che stava rendendo l’uomo una semplice macchina per accumulare denaro.
Il loro insegnamento è sempre attuale, per ricordare che “la vita stessa è la prima e la più grande delle arti, quella per cui tutte le altre non sono che un’introduzione’ (Oscar Wilde, “Ritratto di Dorian Gray”) e che l’uomo è una creatura dotata di una sensibilità eccezionale, che non può essere svilita e offesa, facendola diventare una semplice marionetta nel “gioco” della corsa al guadagno.

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Immagine in testata di wikipedia (licenza free to share)

Giacomo Paradisi

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