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Figlio Padre Nonno

Pubblicato il: 16/04/2013 11:04:49 -


La relazione tenuta da Savino Roggia a Cuneo il 5 aprile 2013 insieme a genitori e nonni, tratta da “Pinocchio ritrovato, la forza di riconoscersi burattino”.
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I padri han mangiato uva acerba
e i denti dei figli si sono allegati.
Geremia, 31

Il titolo trasmette l’entusiasmo della partenza, lo stupore del viaggio e l’arcano del traguardo. Incoraggia a indagare il nesso tra padre e nonno per la risposta che la triade parentale, come ogni triade della Tradizione avendo corrispondenze nel cielo, induce portandoci a considerazioni alte, funzionali a ravvivare e nutrire lo spirito, il figlio, la genia, e tramite essa, la cifra del lavorare al bene della patria e dell’umanità.
E in una società come quella contemporanea, appiattita su un presente incoraggiato e una religiosità maltrattata, non è cosa da poco. Mescolare le atmosfere del padre e del nonno, e trovarvi il segno che li unisce, significa essere operativi nella costruente e mai finita cattedrale del bene.

Ma torniamo alla triade del titolo e vediamo come il sacro cerca, incontra e plasma la profanità.
Il padre, prima di essere papà, è stato figlio. Ha vissuto l’esperienza dell’instabilità del duale (papà-mamma) e vive la ricerca dell’equilibrio a prescindere, nella comunione delle singolarità. Un padre ai primi passi del viaggio è inevitabile che brilli per la passione di… possedere, dominare, valorizzare, fino a sconfinare ad autorità castrante, a padre padrone e a re il quale, pur di giungere e rimanere tale, scoraggia l’emancipazione, briga… priva, limita, tormenta, rende sterili, mantiene l’altro, il germoglio del cambiamento, il figlio nella dipendenza.

Magari ne avverte l’eco, ma non ce la fa a essere un buon padre: il soffio vitale che sostanzia la libertà nella discrezione e la presenza nel rispetto; coerente nel coltivare la vita con pragmatismo, estrosità e creatività coniugati all’amore, all’umiltà, alla pazienza e alla tenacia: per il figlio si deve essere disposti al travaglio e al soffrire dissimulandone le espressioni.

Il buon padre è colui che vive sopra le bizze del risentimento che sconvolge e consuma. È soggetto morale con una visione etica della vita votata ai più puri sentimenti del cuore: lo sollecita un’umanità assetata di sincerità e comportamenti virtuosi.

Un padre in gamba si guarda bene dal ricorrere alla scorciatoia del mobbing verso alcuno e in particolare verso il discendente. Per non dire della negazione dell’amore che è il plagio. Anzi, fa di tutto affinché la sua autorevolezza non penda dai colori dell’assenza, della mancanza e della perdita che solo il Creatore potrebbe colmare; e quindi suggestionare il contesto a elevarlo a signore dei cieli che formula e impone leggi… per una trascendenza ordinata, saggia e giusta, oppure a figura potente e onnipotente sintesi dell’eroe o dell’ideale da possedere, avere, diventare, essere o valere. E non solo per calcolo. Si sa che un siffatto eggregore aprirebbe al desiderio di sopprimere fisicamente il chi sono, il padre esterno (Edipo, Bruto, …). Ma per ubbidienza alla Tradizione: all’amore reciproco adulto di rinascita (io), alla quale, seppur in un movimento di morte, si giunge con il cuore di carne, non di pietra.

Un padre degno dà valore alle cadute del figlio e ne amplifica la portata aiutandolo a riprendere il cammino. Non è il babbo usuraio che, pretendendo gratitudine fin dalle prime battute, si gioca il capitale, il figlio, per incassare gli interessi, contare e separare le brutte azioni dalle belle. Né il genitore amico che si sostituisce nelle salite della vita tracciando al figlio la via della convenienza immediata. E neppure il papà complice che bega per l’effimero invogliando il figlio a parlare tramite tablet, invece di incoraggiarlo al contatto diretto con i coetanei o ad assistere a scene vuote di significati che lasciano briciole alla discussione e alla riflessione.

A maturazione un buon padre, mentre si eleva a nonno, sente il bisogno d’introdurre il figlio ai misteri del Creatore, del maestro di vita e del suo rapporto con l’uomo. Dio è relazione: il suo frutto è il dono. Il creato quindi è fonte infinita di messaggi e contenuti da portare alla luce e trasmettere. Dio non è il signorotto leggero dalle mani inguantate: è disposto a sporcarsele con la materia bruta, consapevole che, una volta donata alla vita, quella materia chiederà ancora presenza, pazienza e umiltà.

Un testimone valoriale, questo, che è consegnato e raccolto dal nonno, la cui immagine vira al bianco, al candore dell’essere non più dibattuto tra il nero e il bianco, tra i solleciti a bassa spiritualità. Il nonno aleggia sopra e intorno al nipote e veleggia al fianco del figlio monitorandone pregi e difetti, vigilando sulle sue capacità di nutrire affetto e comprensione, amare e aver pietà verso l’affine come verso l’uomo; sui suoi atteggiamenti quando sono improntati al cinismo, all’opacità, alla presunzione o al parlar poco delle cose che contano quanto alla loquacità nel difendere idee futili; e sulla pratica di agire per farsi ascoltare e di essere critico a prescindere per cui al parlar bene preferisce parlar male.

Il nonno è un papà più curioso, esperto e preveggente, abile nelle finalità morali e intellettuali e determinato a transitare la conoscenza della Verità ereditata dal suo essere Illuminato, capace di guardare, con ammirato rispetto, in cielo.
Il nonno ama gli affini ed è interessato alla loro evoluzione in un futuro possibile che sia sosta e mai forzata permanenza, espressione di un presente di dignità ancorato a un passato radicato appunto nella Tradizione.
Il nonno è l’uomo magico che ha messo in conto di ricorrere alla cazzuola per riunire, fondere e unificare con i sentimenti di benevolenza luminosa, fraternità universale e tolleranza fino a prova contraria ogni contrapposizione all’interno della famiglia per il bene dell’umanità. È il bene che affronta il male fascinandolo, facendo meglio il bene. È l’uomo canuto che si commuove davanti all’incomprensione e chiama monellata l’errore, cosciente di non avere elementi per giudicare o tirar somme.
Simbolizza l’esperienza, la riflessione, l’altruismo e la metafora dell’immortalità che traghetta l’atto dal transitorio all’eternità come è scritto in Alto, da cui il suo vezzo di parlare poco e soppesare il vocabolo quale mezzo per fermare il tempo, lasciare che la parola meditata, il logos creatore s’incarni nel nipote, nel seme della sua immortalità, nel ricambio generazionale e non dia per scontato ciò che è tollerato dal padre e da lui avversato.

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Immagine in testata di Michael 1952 / Flickr (licenza free to share)

Savino Roggia

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