Cronache dall’ultimo esame di maturità (3)
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“Era una magnifica giornata piena di luce e avevo dovuto portare gli occhiali da sole. Anche Luigi aveva portato le lenti scurite, quelle per l’estate. Li collocammo sui vocabolari e controllammo se la nostra idea funzionava”. Intervista di Lidia Maria Giannini, studentessa del ginnasio, a Luigi Calcerano.
(segue)
LIDIA MARIA: E il giorno dopo?
LUIGI: Tutti di nuovo in quel corridoio che era diventato un’aula, mucchio di pecore in mano ai pastori. Prima dell’apertura dei cancelli c’erano ancora uomini che aspettavano, salite le scale solo robot e sudditi delicatissimi e compiacenti. Eravamo in molti a nutrire vaghi progetti di rivincita e vendetta sui professori, incontrarli e non salutarli, sputargli in faccia, sgonfiargli le ruote e simili amenità. Che mi risulti solo Zurlo, il più indisciplinato, “voglio una vita spericolata, voglio una vita come Steve McQueen”, primo assoluto nella graduatoria delle seghe a scuola (dopo che io ero stato squalificato per motivi di famiglia) solo lui fu coinvolto in una storia di pneumatici sgonfiati. Era diventato tenente dei paracadutisti e dicono gli sgonfiarono le ruote della moto. A lui, capisci? Pare che fosse diventato un gran figlio di puttana coi suoi soldati…
LIDIA MARIA: Classico.
LUIGI: Davvero? Fuori del corridoio trovammo una sorpresa.
LIDIA MARIA: Che avevi preso a colazione?
LUIGI: Caffè. Non potevo tenere altro nello stomaco fin dagli ultimi anni delle elementari. La sorpresa era il buon professore di Matematica e Fisica che leggeva l’appello e mano a mano che rispondevamo ci mandava uno a destra e uno a sinistra del corridoio. Per fortuna Luigi era il primo del suo maledetto elenco e io il terzo…
LIDIA MARIA: Che cognome aveva Luigi I?
LUIGI: Beltrame, detto Belt. Tirammo un sospiro di sollievo, perché stavamo uno dietro l’altro:
mezzo compito era già fatto! Mimmo era nella fila accanto ma vicino, ci sarebbe stato modo di parlare.
LIDIA MARIA: E la sorveglianza?
LUIGI: Era una magnifica giornata piena di luce e avevo dovuto portare gli occhiali da sole. Anche Luigi aveva portato le lenti scurite, quelle per l’estate. Li collocammo sui vocabolari e controllammo se la nostra idea funzionava. Un ottimo specchietto retrovisore. Il nanerottolo non ci poteva più prendere di sorpresa e, una volta che ci avesse sorpassato e lasciati alle spalle non poteva tornare sui suoi passi senza che ce ne accorgessimo. Tutto sotto controllo e con la massima naturalezza possibile. Durante la dettatura, già scambiandoci poche parole la traducemmo all’impronta, senza toccare il vocabolario. Mezz’ora dopo era fatta. Non era molto difficile dopotutto.
LIDIA MARIA: Ricordi il testo?
LUIGI: Non del tutto, ma ti saprei riferire di che parlava: era un brano del “De Amicitia” di Cicerone, di quelli che sembravano pervasi di altissimi sentimenti, ma che celavano una concezione mafiosa del mutuo appoggio. Il sei era più che assicurato, anche se c’erano pezzi poco scorrevoli. Luigi avanti sfoggiava una posizione militaresca, le spalle tirate alla massima estensione. Debitamente fuori vista riuscii a passare tre o quattro periodi a Mimmo…
LIDIA MARIA: Tre o Quattro?
LUIGI: Quattro. Ero tranquillo, grazie agli occhiali sapevo esattamente quando potevo parlare. Ancora adesso che ti parlo l’immagine dei miei occhiali e del corridoio che vi si rifletteva mi dà un senso di potenza. Aiutammo anche qualche altro pellegrino in cattive acque poi chiudemmo le comunicazioni e ci dedicammo ai particolari rimasti poco chiari. L’ultima frase era un po’ sibillina e bisogna sempre dubitare delle traduzioni in cui metti troppo di tuo per trovare un senso. Dopo qualche minuto lo vidi agitarsi appena. Doveva aver capito quel verbo oscuro a metà versione. Stavo per attivare i contatti quando il buon professor di Matematica venne ad attaccare discorso. Stette con noi una decina di minuti ottenendo l’esatto contrario di quanto si proponeva. Ci innervosì, i due Luigi rispondevano furenti. Io avevo districato la fine, lui voleva comunicare il centro e dovevamo attendere. Quando se ne andò avevamo appena preso contatto che la protoplasmatica di Filosofia e storia ci puntò e si mise a qualche metro da noi ad attendere. La tipa ci avrebbe beccati, senza gli occhiali. Vedevo la sua testa tremolante orientata alle mie spalle e un sudor freddo mi bagnava le spalle sotto la giacca. Immobili ci concentrammo a stilare una traduzione insieme letterale ed elegante, sostituendo agli aggettivi troppo secchi, scorrevoli relative e sostituendo verbi più adatti al contesto a quelli di prima approssimazione. La tipa non se ne andava, s’era avvicinata, anzi e pareva volesse svernare dalle nostre parti. Avevo un piccolo thermos di tè freddo nella sacca. Lo tirai fuori, me ne versai un bicchiere e ne offrii un secondo a Luigi I, sostituendo alle poche parole di convenevole la traduzione. Lui sorrise appena come quando riuscivo a tirarne fuori una veramente buona che superava perfino la nostra usuale competitività. Mi passò i suoi biscotti rivelandomi il verbo misterioso.
La professoressa si avvicinò e Luigi I la abbagliò con un sorriso da bravo ragazzo.
“Siccome non si poteva ordinare…” cinguettò.
“Non si può ordinare, avete visto…” borbottò lei.
“Ne vuole?” Luigi le tese il pacchetto dei biscotti.
La vecchia rifiuto pudicamente, come le avesse fatto un complimento e si allontanò finalmente scuotendo ancor più vigorosamente la testa. Dopo tre minuti quello che doveva essere fatto era fatto. Eravamo stanchi, ma un’altra giornata era passata.
LIDIA MARIA: Usciste la sera?
LUIGI: Sì.
LIDIA MARIA: Che strada faceste?
LUIGI: La solita. Via Appia, S. Giovanni, via Magna Grecia, via Etruria, via Appia. Incontrammo Maria Laura quella sera. Era piuttosto seccata per un foruncolo che le era spuntato sul naso. Ormoni, le dicemmo, ma era l’agitazione e lo stress. Incontrai pure Giovanna, ma ci salutammo di lontano. Eravamo un po’ meno depressi la sera, li avevamo fregati due volte non c’era ragione che non ci riuscissimo ancora. La notte invece dormii male sognando l’interrogazione di Matematica.
LIDIA MARIA: Era il professore buono che la interrogava?
LUIGI: No. Era una donna.
LIDIA MARIA: Col latino avevate chiuso i conti no?
LUIGI: Magari! C’era Italiano Latino. Mi svegliai come Orazio quella mattina e mi pareva d’esser andato a letto da pochi minuti. Avevamo deciso di cambiare immagine quella mattina per dar meno nell’occhio. Due che parlottano potevano rimanere nella memoria. Ricordo che il vestito non era stirato e che per poco non feci tardi.
LIDIA MARIA: Tardi sul suo anticipo, immagino.
LUIGI: Fuori dei cancelli alle solite chiacchiere si aggiunsero i commenti sulle traduzioni dei giornali. Il latino andava scomparendo non si trovava più un cane che lo traducesse a puntino.
LIDIA MARIA: … ancora le scale ancora l’appello.
LUIGI: Sì. Ma stavolta l’idea era di mettere lontano quelli della stessa sezione. Mimmo fu catapultato via dalle parti di Angelo e noi ci salvammo per un pelo. Quando trovava due della stessa sezione li spostava e noi eravamo tre della stessa sezione troppo vicini.
“Sezione A” disse Luigi I e sapeva che gli sarebbe toccato rimanere.
“A” dissi io e mi misi a trafficare disinvolto, con la morte nel cuore. Sentivo l’uomo perplesso a pochi centimetri da me. Spostarmi doveva creargli qualche problema logistico. Guardò dietro i banchi già sistemati e il privatista che non sapeva dove ficcare. Fu un brutto momento, poi il mio aguzzino rifiutò di rimettere in discussione tutto il lavoro già fatto e passò avanti. Ero distrutto dalla tensione. Ci misi un po’, dopo la dettatura per mettermi al lavoro. Era andata bene, ma ancora non riuscivo a capacitarmene. Lavorammo un po’ in silenzio, poi prendemmo in mano gli occhiali. La comparativa in principio poteva andare sia all’indicativo che al congiuntivo. La prudenza consigliava di mettere il congiuntivo, nel caso potesse considerarsi ipotetica e non reale… solo che non era isolata e da lei dipendevano una sfilza di altre frasi da districare con la consecutio. Per questo proponevo l’indicativo, per semplificare tutto. Ero incerto però che si potesse senz’altro mettere perché si trattava di un esempio un po’ ambiguo.
Pesammo un po’ i pro e i contro e Luigi I consultò uno zazzeruto avanti che però annaspava tra i tranelli della subordinazione. La privatista dietro di me, voce sottile e delicata, provenienza da scuola di monache, era d’accordo sull’indicativo. Semplificai ulteriormente la rogna con aggettivi e participi che prendevano il posto di intere frasi, passai la traduzione a una vera e propria cura di bellezza, cercando di imitare l’andamento a suspense della migliore prosa latina. Bella e buona. La prima botta era stata data e bisognava comunque evitare di rilavorarci subito, sicché ci dedicammo a passare la traduzione in giro. Luigi I dettò allo zazzeruto, io misi il foglio negligentemente da una parte e, mentre mi preparavo uno spuntino, tentai l’educanda. Imparava presto, copiò, controllò e individuò alcune imperfezioni. Stava parlando diffusamente quando dalle lenti vidi il commissario con la pipa che arrivava con lunghe falcate.
Non potevo voltarmi e avvertirla e allora scattai in piedi e mi tolsi goffamente la giacca. La ciminiera puzzolente ci oltrepassò senza danno e pescò un movimento imprudente più avanti. Non ritirò il foglio, ma ci gratificò di un eloquentissimo predicozzo sulla responsabilità e la morale. Immaginai malvagiamente che il lavoro rendeva liberi. Il discorso cadde in un religioso silenzio. Dopo che se ne fu andato cercai sul vocabolario qualche bel sinonimo e presi a copiare in bella. La rilessi, sembrava corretta, elegante e musicale. Quello era il vezzo (utile) che ci prendevamo. Cominciavo già a pensare a trigo e geometria. Ancora Greco ed era fatta. Mi feci dare una sigaretta dalla privatista e mi concessi una fumata.
(continua)
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Lidia Maria Giannini