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Lavoro e istruzione: una “questione nazionale”

Pubblicato il: 17/10/2011 18:04:35 -


Più è elevato il livello di istruzione, maggiore è l’investimento che il singolo e/o la collettività compiono; ma anche, se la spesa dell’istruzione è a carico della collettività, più elevato è il sacrificio fiscale richiesto. Quale punto di equilibrio tra vantaggi e svantaggi?
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Un filo conduttore, più o meno lasco, ma comunque presente, lega alcuni interventi ospitati in Education 2.0 (segnalo in particolare i più recenti “La scuola di Gentile e la scuola di massa nei dati OCSE” di Allega e “Orientamento scolastico e professionale: ritorno all’antico” di Sacchi) e si annoda al tema di questo articolo.

Allega, nel suo saggio, ci propone una esercitazione intellettuale che personalmente apprezzo molto in quanto “esercizio”. Le sue modellizzazioni statistico-matematiche possono aiutare a comprendere la realtà, se siamo in grado di introdurre nei suoi “modelli ideali” le specificazioni corrette per interpretare, storicamente, quello che lui chiama “il vantaggio e/o svantaggio sociale” dell’accesso all’istruzione che guiderebbe le scelte di una popolazione ideale nell’accesso ai diversi gradi di istruzione. Il “comportamento sociale” opera infatti deformando e determinando i valori delle variabili che presiedono, nelle sue analisi, alla determinazione dei modelli statistici. E tale comportamento è, a sua volta, legato ai caratteri della “formazione socio economica” da un lato e alle interpretazioni culturali che forniscono di senso (valori riconosciuti, scale gerarchiche, conflitti e appartenenze, immaginari del presente e del futuro) la vita stessa della “formazione sociale”. Aggiungo per ora solo la considerazione che tali rapporti hanno la caratteristica della “lunga durata” caratterizzando i comportamenti di “generazioni” di popolazione, ben oltre le cadenze temporali dei cicli di istruzione. Propongo di articolare quello che lui chiama “vantaggio/svantaggio sociale” in due fattori: “l’effetto spinta” e “l’effetto richiamo”. Una articolazione che, se non altro, consente di argomentare e distinguere gli effetti di interventi intenzionali a determinare il comportamento collettivo (la politica) e quelli che operano sul comportamento soggettivo in termini complessi che comprendono il “vantaggio” (per esempio economico) ma non si esauriscono in esso (per esempio contemplano effetti imitativi, valori non economici, valori incondizionati, vocazioni e speranze, rituali e scale e prestigio sociali: tante variabili che presiedono alle scelte di istruzione).

Sacchi, da par suo, ci ripropone direttamente la riflessione sul nesso tra istruzione e sbocchi lavorativi e professionali e gli istituti e gli strumenti che consentono (consentirebbero) di dare maggiore razionalità di scelta e conforto di risultati per affrontare un problema permanentemente aperto nella storia nazionale. E di particolare e contingente gravità in questa fase storica.

Vi è, evidente, un nesso immediato tra le due tracce di riflessione: una prima misura (non esclusiva) del “vantaggio sociale” (non esclusivamente economico) dell’istruzione è infatti la possibilità di presentarsi sul mercato del lavoro con una “dote” di maggior valore che aumenta le possibilità di uno scambio più vantaggioso (in termini di prezzo, cioè retribuzione, ma anche in termini di prestigio nel riconoscimento sociale). Ma tutti sappiamo che l’apparente realismo di tale nesso è fortemente mediato dalla struttura, dal funzionamento, dalle condizioni di confronto tra domanda e offerta sul medesimo mercato del lavoro, oltre che dalla reciproca consistenza quantitativa. Più elevato è il livello di istruzione più l’accesso al mercato del lavoro è posposto nel tempo. Il vantaggio connesso al più elevato livello di istruzione dovrebbe perciò essere sufficientemente consistente per remunerare anche il ritardo temporale nello scambio lavoro-retribuzione. Più è elevato il livello di istruzione, maggiore è l’investimento che il singolo e/o la collettività compiono (cioè pospongono un vantaggio immediato destinando risorse per un potenziale maggior vantaggio futuro); ma anche, se la spesa dell’istruzione è a carico della collettività (della fiscalità), più elevato è il sacrificio fiscale richiesto.

Quale punto di equilibrio tra vantaggi e svantaggi? Dipende dalle fasi storico-economiche, dalla struttura del mercato, dagli assetti del sistema di istruzione, dai valori sociali che vengono assegnati ai diversi ruoli professionali e di lavoro. Finanche, come ben sappiamo, dai modelli famigliari e di ruolo di genere che sono attesi e riprodotti.

Lascio volentieri ad Allega l’esercizio di individuare i punti di intersezione (di equilibrio) tra le diverse curve con le quali si possono rappresentare gli andamenti di tali variabili.

In molte delle analisi che affrontano il tema istruzione-occupazione ci si concentra spesso sulla corrispondenza/non corrispondenza tra la diversa composizione della domanda e dell’offerta di lavoro. Su tale base il sistema di istruzione viene sollecitato a meglio rispondere alle dinamiche reali dell’economia, per esempio attraverso la valorizzazione dei sistemi di formazione professionale, o sviluppando il sistema di orientamento; sull’altro fronte il sistema del mercato del lavoro viene sollecitato a dotarsi di strumenti contrattuali e istituti flessibili (dallo stage, all’apprendistato). Gli approcci variamente critici a tali sollecitazioni e alle realizzazioni che hanno generato hanno prodotto amplissima pubblicistica e non è mia intenzione esplorarla. Voglio solo sottolineare che la verità e il limite di tale approccio sta nel fatto che affronta il carattere “frizionale” delle tensioni sul mercato del lavoro, come se ciò (che pure è una realtà, sia per quanto riguarda l’istruzione, sia per gli istituti del mercato del lavoro) costituisse il cuore della questione.

Qui propongo invece una lettura di carattere strutturale e “di lunga durata” del nesso istruzione e lavoro, cercando di motivare il fatto che a essa attribuisco il carattere di “questione nazionale”.

Non è la sede per una analisi scientifica dell’occupazione nel nostro paese lungo la sua storia, ma, sia pure con semplificazioni e metafore di cui mi scuso anticipatamente rinviando a eventuali successivi approfondimenti, vorrei mostrare che lungo quella storia si riscontra il permanere di categorizzazioni e costrutti che, sia pure con declinazioni volta a volta adattate alle diverse fasi economiche, mostrano, appunto, i caratteri della “lunga durata”. Fino dunque a convalidare l’attribuzione di “questione nazionale”.

Esaminando il problema dell’occupazione nel nostro paese, almeno dal dopoguerra in poi (ma non solo) si possono infatti individuare alcune costanti di analisi storica che sembrano avvalorare l’ipotesi che il nostro sistema economico sia sempre stato caratterizzato da una “disoccupazione di massa” (che dunque è tutt’altro che il portato della crisi attuale. Se si vuole: una storia che va dalla disoccupazione di massa alla disoccupazione di massa).

La presenza di sovrappopolazione relativa, rispetto alla dinamica reale dello sviluppo economico. Nel dopoguerra e fino agli anni ’60 il fenomeno è relativo soprattutto all’agricoltura. La popolazione legata all’agricoltura occultava, nei grandi numeri, le dimensioni reali dell’occupazione e della disoccupazione attraverso dispositivi diversi come il carattere “famigliare” del lavoro agricolo (inclusione mascherata del lavoro femminile e dei giovani), l’esiguità del numero delle giornate di effettivo lavoro, la parte di esso destinata all’autoconsumo ecc. Ma nello stesso senso vanno le diverse provvidenze assistenziali che, sul fronte della distribuzione del reddito, mascherano gli effetti di una “disoccupazione di massa”. (Si ricordino le analisi di “tecnici” di diversa scuola, dal Serpieri a Manlio Rossi Doria, a Sereni). Dalla riforma agraria degli anni ’50 in poi la sovrappopolazione relativa alimenta il flusso migratorio, che, a sua volta, per i caratteri che ha avuto (per esempio la sua transitorietà: gli emigranti tendevano in genere a “ritornare”) contribuisce a “mascherare” la disoccupazione reale. Si tenga inoltre conto che, proprio quella riforma, operò in due direzioni: da un lato si voleva convalidare (per scelta politica e culturale) il carattere famigliare e autonomo dell’impresa agricola, dall’altro si rinforzarono gli strumenti di intervento assistenziale. L’effetto netto fu quello di innescare un flusso netto di popolazione agricola, disponibile da un lato all’emigrazione, dall’altro al mercato del lavoro industriale che si svilupperà tumultuosamente nel ventennio successivo.

L’emigrazione che quest’ultimo produrrà sul fronte interno avrà, per altro, carattere “insediativo” modificando i caratteri e la composizione stessa della popolazione e del mercato del lavoro.

Oggi, mutatis mutandis, assistiamo a fenomeni di sovrappopolazione relativa rispetto alle possibilità reali del mercato del lavoro nazionale nei confronti di popolazione giovane, istruita e particolarmente qualificata. Il fenomeno dell’emigrazione intellettuale odierna fa spesso “indignare”, ma sembra che si ignori il fatto che interpreti, nelle condizioni attuale, una costante storica del nostro sviluppo nazionale.

Ma qui sostengo che lungo la storia del nostro paese mai il lavoro è stato considerato “risorsa essenziale” per lo sviluppo, e dunque “da saturare” nello sviluppo stesso; e di riflesso mai la cultura (e la politica) italiana ne ha elaborato il “senso”in questa direzione. Fatta salva forse la retorica del lavoro agricolo (dal “ruralismo” di una parte della cultura fascista, alla presenza dell’amato bove carducciano nei sussidiari della scuola elementare fino a non molti decenni fa). Ma quella retorica, appunto, occultava la “funzione” della sovrappopolazione (allora) agricola.

Per sintetizzare, con una affermazione che ha valore di metafora: la cultura economica e politica del paese non è mai stata “keynesiana”, e non ha mai supportato/ispirato politiche del lavoro con tale impostazione. Lo “pseudokeynesismo” di una parte della classe dirigente democristiana fu poca cosa (vedi p. es. lo “schema Vanoni”). Anche negli anni del più stretto condizionamento internazionale le indicazioni autenticamente keynesiane dei responsabili del piano Marshall furono lasciate “lettera morta” dalle classi dirigenti nazionali: un esempio significativo del “doppio legame” tra servo e padrone e del sempre possibile opportunismo del primo. Potremmo con tutta tranquillità affermare che la vera impostazione “keynesiana” fu quella del “Piano del Lavoro” della CGIL di Di Vittorio.

Oggi la permanenza di “sovrappopolazione relativa” convive, con effetti dirompenti, con il fatto che siamo diventati paese di immigrazione. E la base strutturale dello sviluppo di cultura xenofoba è esattamente questo.

Il basso tasso di attività della popolazione.

Molto del dibattito politico attuale si indirizza al confronto sui tassi di disoccupazione, spesso consolandosi del fatto che il livello italiano sia confrontabile, pur nella drammaticità della crisi attuale, con quello di altri Paesi europei. Il tasso di disoccupazione è grandezza che cela una ambiguità di fondo: esso riporta infatti al rapporto esplicito tra domanda e offerta sul mercato. In questo senso occulta il fatto che parti consistenti della popolazione si sottraggono, per le più diverse ragioni, al mercato stesso.

Con qualche sgomento alcuni commentatori, di recente, sottolineano la presenza di giovani (soprattutto, ma anche di donne) che né studiano, né lavorano, né cercano lavoro. Ma anche questa è una “costante storica” sia pure legata nelle diverse fasi a meccanismi specifici. Ricordo che a metà degli anni ’60, dopo la momentanea crisi del “miracolo economico” che allora fu chiamata “la congiuntura”, il tasso di occupazione e quello di disoccupazione diminuirono entrambi in apparente paradosso. In realtà una parte consistente di popolazione (giovani e donne soprattutto) si sottrassero al mercato del lavoro esplicito. E ciò vale anche per l’oggi. Molti e diversi sono invece i meccanismi in opera: da un lato l’aumento della durata della scolarizzazione, dall’altro il miglioramento del reddito distribuito e la convalida di “modelli sociali” di ruolo famigliare, dall’altro ancora il carattere del sistema di welfare sagomato dal finanziamento incentrato esclusivamente sul costo del lavoro gravante sugli occupati e sulle imprese.

Sia pure con diversi meccanismi operativi il basso tasso di popolazione attiva ha sempre mascherato l’effettivo livello di occupazione offerto dallo sviluppo economico del paese, anche negli anni più positivi. Ma “mascherare” e occultare le dinamiche reali non significa colmarne le contraddizioni, ma, al meglio, rinviarne o moderarne l’effetto. Per esempio nel decennio a cavallo del 2000 abbiamo conosciuto una espansione “formale” dell’occupazione, ma in assenza di sviluppo. La contraddizione apparente si è scaricata sul fatto che sono state incentivate forme di occupazione instabile e provvisoria (la cosiddetta “flessibilità”) le cui contraddizioni giungono al pettine ora. E altra emersione contraddittoria è costituita dalla crescita più che significativa della scolarizzazione femminile ai livelli superiori, che, congiunta alla modificazione dei modelli di ruolo di genere, diminuisce la possibilità di gestire funzionalmente, come funzione di ammortizzatore, il basso tasso di attività della popolazione.

La sommatoria di “lavoro che manca” e di “lavoro che cambia”. Tale carattere “costante” dell’occupazione del nostro paese potrebbe anche essere descritto come il carattere “selettivo ed escludente” del mercato del lavoro italiano. Anche negli anni del più intenso sviluppo industriale, il mercato del lavoro italiano si è caratterizzato per la sua “segmentazione selettiva”: il settore “centrale” della grande impresa industriale (fordista taylorista); il mercato del lavoro intellettuale assolutamente separato per procedure d’accesso, settori di impiego e contrattualistica (il terziario propriamente detto e quello interno all’impresa industriale p. es.); i settori periferici della piccola e piccolissima impresa, confinante con il “lavoro informale”; l’occupazione “pubblica” con i suoi meccanismi specifici di funzionamento e sottratta alla concorrenza. Tale segmentazione ha sempre operato in termini selettivi-escludenti, rispetto alla generalità dell’offerta di lavoro.

Anche nella fase di più intenso sviluppo industriale, quello della grande impresa fordista-taylorista è stato più un “paradigma di lettura” di scuola economica, che non una realtà effettuale estesa al modello di sviluppo nazionale. Non dunque un elemento di effettiva “unificazione” dell’occupazione e del lavoro.

I cicli di ristrutturazione economica hanno sempre avuto cadenze temporali reali strette, più rapide della capacità di adeguare analisi e consapevolezze, mantenendo e acuendo il carattere selettivo ed escludente del mercato del lavoro (dagli anni ’50 cicli più o meno decennali: il lavoro che manca e il lavoro che cambia si sono sempre alimentati a vicenda più rapidamente del “consistere” delle generazioni di occupati).

Nella composizione della disoccupazione italiana vi è la prevalenza di persone in cerca di prima occupazione (giovani e donne soprattutto) rispetto a persone che hanno perso il lavoro. È un dato consolidato e specifico, evidenziato anche nei confronti internazionali. Anche in tale caso i fattori che lo determinano sono di natura diversa: dai livelli di “protezione” del lavoro, operanti quasi esclusivamente per gli occupati stabili nel “mercato centrale”, o in quello specifico dell’impiego pubblico (vedi carattere del welfare connesso), alla forza contrattuale delle organizzazioni sindacali, alla tendenza dell’impresa alla “conservazione” dei fattori produttivi (sfruttandone in modo relativo costi e risparmi) rispetto all’innovazione dei processi e dei prodotti.

I processi di ristrutturazione, innescati in particolare a partire dagli anni ’80 hanno spostato il peso specifico della combinazione verso il “lavoro che cambia” e progressivamente hanno consumato i margini di combinazione con il “lavoro che manca”, minacciando di travolgere anche i meccanismi tradizionali di “protezione”.

Per fare solo un esempio, basti riflettere sul futuro prossimo della cassa integrazione, lascia sgomenti.

(continua)

***
Foto tratta dall’archivio delle “foto ricordo” di Franco De Anna (nel riquadro), Istituto Tecnico Industriale “Feltrinelli” di Milano – 1959 – classe prima – Officina aggiustaggio.

Franco De Anna

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