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Lavoro e istruzione: una “questione nazionale” (seconda parte)

Pubblicato il: 18/10/2011 16:24:46 -


Più è elevato il livello di istruzione, maggiore è l’investimento che il singolo e/o la collettività compiono; ma anche, se la spesa dell’istruzione è a carico della collettività, più elevato è il sacrificio fiscale richiesto. Quale punto di equilibrio tra vantaggi e svantaggi?
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(segue)

Comunque la presenza nella composizione della disoccupazione di coloro che hanno “perso il lavoro” si sta più o meno lentamente aggiungendo (e non correggendo) alla prevalenza di coloro che lo cercano per la prima volta. Appunto: lavoro che cambia e lavoro che manca congiunti e in assenza di politiche del lavoro capaci di articolare risposte specifiche.


Anche in tale caso i riflessi di una situazione economica sul piano culturale sono evidenti: allontanamento nel tempo dell’acquisizione di autonomia da parte delle nuove generazioni; sfiducia sul “valore del lavoro” nella vita personale; rafforzamento delle tendenze individualiste e “etico-indifferenti” all’arrangiarsi personale. Finanche il distanziamento tra generazioni e la connessa “perdita di memoria”.


La presenza di lavoro informale e nascosto accanto a quella del lavoro esplicito e “contrattato” sul mercato.


Le attribuzioni di “informale” o “occulto” possono trovare diverse espressioni (per esempio quella più usata di “lavoro nero”); il fatto è che sono comprensive di diverse tipologie: per esempio il doppio lavoro, quello occasionale, la sottooccupazione femminile e giovanile, quella stagionale ecc.: fenomeni le cui cause e il cui significato sociale sono assai diversificati.


Non è scopo di questa analisi metterne in luce tali differenze. Mi preme invece sottolineare come tali forme di “lavoro informale” non solo siano permanenti nella storia dell’occupazione del nostro Paese (per esempio che cosa era in passato, e in parte ancora oggi, l’associazione del lavoro femminile nella impresa agricola famigliare?) ma siano “funzionali” agli assetti di lunga durata del/dei mercati del lavoro.


Anche tale funzionalità comprende fenomenologie diverse: dal doppio lavoro con cui l’occupato si sottrae ai vincoli e alle rigidità della contrattualistica ufficiale incrementando sia reddito che soddisfazioni professionali; all’occultamento consensuale di fonti di reddito reale rispetto alle dinamiche fiscali o alla convenienza del mantenimento di misure di assistenza; allo sfruttamento più brutale dal lato dei costi del lavoro. (E, in intere aree geografiche del paese, la prossimità con la malavita organizzata).


Un elemento che costituisce un fattore comune di alimento di tale fenomeno “funzionale” è il carattere, più volte sottolineato anche nei punti precedenti, degli istituti di sostegno, protezione e sviluppo delle politiche occupazionali. (Il carattere del welfare che presiede al “diritto al lavoro”).


La “funzionalità” più elementare è costituita dal fatto che tali fenomeni ne abbassano costi e “urgenza sociale”, convalidando assetti tradizionali che gravano, per i costi, su un welfare “previdenziale” (i costi del lavoro) e non “di cittadinanza” (la fiscalità generale).


Senza approfondire l’analisi, basti pensare all’effetto dirompente che avrebbe l’introduzione del “salario di cittadinanza” con le necessarie misure connesse sul piano della fiscalità, dei meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro, degli stessi differenziali retributivi, della distribuzione e circolazione sociale e generazionale del lavoro.


La compartimentazione territoriale dell’occupazione.


È un fenomeno che caratterizza tutti i modelli di sviluppo anche di altri Paesi. Ma nel nostro ha natura assolutamente specifica e “strutturale”, anche se le scuole di pensiero interpretativo sono assai diverse.


Negli anni ’70, per esempio, si andò consolidando una “triripartizione rigida” dell’occupazione nazionale: il settore centrale della “prima Italia”; Il Mezzogiorno (la seconda Italia) nel quale i parametri descrittivi dell’occupazione mostravano differenziali incolmabili; il settore (allora in sviluppo) della “terza Italia” o quella che venne indicata come NEC (Nord-Est, Centro) con una occupazione legata alla piccola impresa e alla sua dinamica, e a modelli specifici di integrazione tra sviluppo territoriale e sviluppo produttivo (distretti, specializzazioni merceologiche, filiere territoriali).


Non interessa qui adottare l’una o l’altra classificazione o scuola di pensiero interpretativo (per qualcuna di esse la “terza Italia” e la “prima Italia”, nella crisi attuale, si stanno avvicinando): basti invece sottolineare che questa ripartizione (o altre più specifiche) sono caratterizzate da elevati livelli di rigidità e non-comunicabilità.


Insomma i riflessi sociali di tali diverse forme di occupazione sono assolutamente non commensurabili tra loro, e si traducono in “posizionamenti” non solo economici, ma culturali, politici, di identità e appartenenze notevolmente differenziati. (Tanto che, per qualcuno, si tratterebbe addirittura di “popoli” diversi: ma queste sono le basi strutturali per affermazioni politiche che altrimenti appaiono “estemporaneamente” arbitrarie, per usare eufemismi).


Alcuni dei tratti caratterizzanti l’occupazione (e il lavoro) nel nostro Paese come costanti storiche vanno ben oltre le stesse periodizzazioni indicate e risalgono finanche alla formazione dell’unità del Paese (in questo senso si tratta di “questione nazionale”).


Per qualche interpretazione storica tutto ciò sarebbe legato a un processo di unificazione nazionale “tardivo” e a un altrettanto ritardato processo di industrializzazione del nostro Paese.


Di ciò porteremmo il retaggio.


C’è ovviamente grande parte di verità in tali affermazioni e non è mio “mestiere” approfondirle.


Ma la Germania non ha avuto storia di unificazione diversa, e per alcuni versi anzi parallela. E lo stesso dicasi per un processo di industrializzazione differenziato rispetto ad altre nazioni come la Francia o la Gran Bretagna (ma con esiti ben diversi da quanto realizzato in Italia). Lo ricordo perché la Storia non assolve le classi dirigenti e nessuna “oggettività strutturale” può mistificarne la responsabilità, non solo sul piano economico, ma anche (o sopratutto) su quello “intellettuale e morale” (per dirla con Gramsci).


L’autoritario (?!) Bismark tentò la “nazionalizzazione” del popolo tedesco anche con il “suffragio universale” e con la costruzione di un primo sistema di previdenza sociale. Ma anche con lo sviluppo delle scuole professionali e con gli incentivi alla “creatività operaia” e al suo apporto alla innovazione dei processi produttivi (l’industrializzazione accelerata della Germania ebbe questo apporto, e tratti simili vi sono nella storia dell’industrializzazione nipponica).


Del “liberale” Cavour non possiamo dire, perché scomparve anticipatamente, e non sappiamo come avrebbe proceduto nella “costruzione degli italiani”. Si sottrae al giudizio. Sappiamo però che questo “padre della Patria” in tutta la sua vita non fu mai a Napoli o a Palermo. E dell’altro “padre” Vittorio Emanuele II (che si volle secondo anche se fu il primo re d’Italia) sappiamo della insofferenza che nutriva verso il risiedere a Roma. Insomma il “paese intero” fu solo nello sguardo degli altri due “padri” Mazzini e Garibaldi. Gli sconfitti.


Ho sottolineato alcuni elementi di “costanza storica” dell’occupazione italiana per cercare di dare al problema del nesso lavoro-istruzione una dimensione non contingente.


Il sistema di Istruzione, rispetto a tali elementi si presenta infatti, almeno formalmente, come “sistema unitario”, come “sistema nazionale”, rispetto alle divisioni e segmentazioni selettive del sistema economico e dunque dell’occupazione.


Per qualche interprete ciò lo proietterebbe fuori e oltre la dinamica di processi come quelli ricordati e legati alle caratteristiche dello sviluppo economico italiano. A salvaguardia alle funzioni sociali del sistema nazionale di istruzione starebbe cioè l’affermazione di un “primato della cultura” rispetto alle dimensioni materiali e reali dello sviluppo.


In altro contributo ho cercato di rilevare i nessi che in realtà si possono e debbono rilevare tra sistemi di istruzione (in quanto sotto sistemi sociali) e sviluppo economico (“Sistema istruzione: le strategie del futuro”).


Non vi torno, limitandomi a sottolineare come tale proiezione dell’istruzione “al di là” delle problematiche economiche, invece di salvaguardarne le asserite funzioni sociali, la renda invece in realtà ancora più subalterna alle prime.


La domanda è radicale e rivolta a quel concentrato di lavoro intellettuale (la più cospicua aggregazione quantitativa e qualitativa) che è rappresentato dai “lavoratori della scuola”. Quale contributo può venire da quel sistema che si pone come “nazionale” a superare le contraddizioni e i caratteri storici di divisione e segmentazione che il lavoro presenta nel nostro Paese e che ho cercato sommariamente di descrivere?


Uso un aneddoto storico con valore di metafora rispetto a tale interrogativo.


Nel 1962 lo SVIMEZ pubblicò il primo rapporto sul “fabbisogno di diplomati e laureati” che lo sviluppo del nostro Paese andava configurando.


Il Ministro dell’Istruzione di allora (autorevole e storico esponente del partito della Democrazia Cristiana: Gonella) presentando pubblicamente il rapporto si disse stupito del particolare che ciò che apparteneva alla problematica della cultura avesse un riflesso anche sulla problematica “dell’utile” (espressione testuale).


Nella sua disarmante “onestà intellettuale” dello stupore di tale affermazione dimostrava la radicale insufficienza di consapevolezza di una intera classe dirigente. E ora?


Negli anni del dopoguerra l’istruzione ha certamente svolto una funzione di “ effetto spinta” (vedi sopra) rispetto all’occupazione.


L’affermazione costituzionale dell’obbligo scolastico e le sue faticose e tardive traduzioni operative (l’unificazione della scuola media, per esempio) fornirono alimento di forza lavoro “socializzata” al settore centrale dell’occupazione costituito dalla grande impresa industriale e operarono come ammortizzatore di quella “sovrappopolazione relativa” che alimentò l’immigrazione interna.


Lo sviluppo dell’istruzione tecnica negli anni successivi “dialogò” con lo sviluppo industriale con funzioni di “effetto richiamo”, alimentando una domanda di istruzione ben oltre le definizioni formali dell’obbligo scolastico (vedere le “curve” di Allega). E ora?


Come dare collocazione (se ne hanno) entro tale problematica alle affermazioni di una autorevole rappresentante della politica scolastica che afferma finita, per la scuola, la fase di “inclusione” e iniziata invece quella della “meritocrazia”? (Provare a declinare la magia attuale che circonda la parola “meritocrazia” con almeno parte delle analisi precedenti…).


Ma anche a quelle di Prodi (in via di principio condivisibili) che reclama la necessità di una formazione di “superperiti” per alimentare lo sviluppo dell’innovazione industriale.


Come declinarle rispetto a una domanda di istruzione che, spontaneamente si dirige verso altre mete (la licealizzazione della domanda di istruzione superiore)? Come dare sostanza a una politica scolastica dell’obbligo entro le sue nuove affermazioni (un ciclo di dieci anni…), in comunicazione con le politiche occupazionali?


Siamo di fronte al pericolo (anzi alla realtà) che “l’effetto spinta e l’effetto richiamo” si annullino entrambi nel comportamento sociale, in assenza dell’indirizzo politico.


Ed è inutile aggiungere che i tempi di affermazione “dell’effetto spinta” sono di norma assai più stretti di quelli “dell’effetto richiamo” necessariamente laschi nella loro riproduzione generazionale. In altre parole: la responsabilità della politica è di primo piano, e occorre “fare in fretta”. Su quanta consapevolezza di tutto ciò vi sia nei cosiddetti “nuovi ordinamenti” il tacere è bello.


Le risposte stanno sia in una diversa politica scolastica, ma anche in una politica dell’occupazione che, congiuntamente, pongano mano a quella che ho indicato come “questione nazionale”. Certamente non è sufficiente l’indirizzo di politica scolastica. I due “diritti costituzionali” (l’istruzione e il lavoro) debbono essere declinati congiuntamente.


Si tratta di domande il cui spessore va esplorato con tutta la complessità e la gravità che richiedono.


Mi limito solo a indicare come condizione quella di una declinazione coordinata sui due versanti.


La necessità cioè di superare il carattere “previdenziale” del welfare per costruire un welfare di cittadinanza capace sia di potenziare il significato e i contenuti del diritto all’istruzione (l’obbligo) sia il “valore sociale” del lavoro come carattere costitutivo dell’appartenenza nazionale (Art. 1 Cost.).


Non sfuggirà al lettore che ciò comporta conseguenze di decostruzione-ricostruzione delle forme di fruizione reale dei due diritti costituzionali.


Ciò investe il sistema di “protezione” sociale del lavoro che sappia riconiugare insieme “spinta e richiamo” rivolti al complesso della popolazione (dunque superando le divisioni e convenienze delle diverse forme “protezioni” e assumendone i costi sul complesso della fiscalità) e parimenti il sistema di istruzione che davvero sappia coniugare inclusione e promozione di cittadinanza e favorire “i capaci e meritevoli” citati nell’art. 34 della Costituzione.


Per quanto attiene allo specifico di quest’ultimo, tutto ciò mette in evidenza certamente l’intera problematica sulla quale è intervenuto (a più riprese) Sacchi con i suoi articoli: dall’orientamento allo sviluppo dell’istruzione professionale.


Ma il nocciolo duro è rappresentato dalla cultura del lavoro, anzi dal lavoro come “ideale pedagogico”, che presieda alla stessa declinazione culturale dei contenuti, delle discipline, delle prassi operative della scuola.


Dalla Letteratura alla Storia, dall’Economia alla Tecnologia e alle discipline scientifiche, alla valorizzazione delle prassi operative nell’apprendimento, del laboratorio, della esperienza e creatività, è possibile tale “sagomatura”, a patto che ci si liberi di una concezione della cultura come “otium” e del lavoro come “condanna biblica” o nella sua sussunzione di sfruttamento, e lo si declini come “opera”, come ciò che “umanizza l’uomo” e contemporaneamente ne alimenta le identità sociale collettiva.




***
Foto tratta dall’archivio delle “foto ricordo” di Franco De Anna (nel riquadro), Istituto Tecnico Industriale “Feltrinelli” di Milano – 1959 – classe prima – Officina aggiustaggio.

Franco De Anna

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