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L’Analogia: Cuore della cognizione – IV parte

Pubblicato il: 26/07/2013 14:36:00 -


La scuola di Bologna conferisce la Laurea ad honorem a Douglas Hofstadter: questa la quarta e ultima parte della laectio magistralis del professore.
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Tante analogie vengono create spontaneamente per un uso del tutto transitorio e poi vengono totalmente dimenticate. Si potrebbe dire che sono analogie usa e getta. In tali casi, nessuno prende atto del fatto di aver creato o sentito un’analogia, anche se questa può essere abbastanza sottile. Vi faccio un esempio. Se dico a mio figlio “Hai una piccola briciola proprio qui”, indicando col dito la mia guancia, lui non sarà mica confuso, perché vede l’analogia banale (seppur utile) tra la mia faccia e la sua. Capisce senza starci a pensare un attimo che sto parlando della sua guancia usando la mia come punto di riferimento. È un’analogia usa e getta perché nessuno ci fa la benché minima attenzione.

Anche la parola “lì” agisce spesso in un modo simile. Nel 1981 ho fatto una conferenza (tra parentesi, sul pensiero analogico!) in un’aula bella grande nel dipartimento di fisica al Caltech e, con mia grande sorpresa, è entrato il famoso fisico Richard Feynman – e dove si è seduto? Ma proprio lì! [Indicazione col dito del lato sinistro della sezione centrale della prima fila di sedili nell’Aula Magna di Santa Lucia.] Veramente? Ma com’è possibile indicare un posto in un’aula all’Unibo dicendo che Feynman al Caltech era seduto proprio lì? Anche se è vero che quasi cent’anni fa Albert Einstein ha fatto una conferenza proprio qui a Bologna, è molto dubbio che Richard Feynman quel giorno del 1981 possa essersi simultaneamente seduto qui, in quest’Aula Magna a Bologna, e anche lì in quell’aula grande a Pasadena in California. Eppure dicevo la verità, perché mi stavo esprimendo tramite un’analogia, proprio come, toccando la mia guancia col dito, posso indicare senza ambiguità una briciola sulla guancia di qualcun altro.
Questi esempi illustrano bene il fenomeno molto diffuso delle analogie usa e getta. Se sembrano banali, nascondono nondimeno sottigliezze a bizzeffe.

Analogie semplici eppure interessanti si nascondono spesso sotto vestiti molto innocui, come l’espressione “Anch’io”. Mia figlia ventenne mi ha detto recentemente “Mi laureerò alla fine di maggio”, e io, sorridendo, le ho risposto, “Anch’io.” Ma non volevo certo dire che anch’io stavo per finire il mio corso di studi universitari. Volevo dire invece che alla fine di maggio avrei ricevuto un diploma – anzi, due! – dalle mani del Magnifico Rettore dell’Università di Bologna, dove non avevo mai seguito neanche un singolo corso. E mia figlia tutto questo l’ha capito senza batter ciglio. Comunichiamo senza sosta tramite analogie che, a meno di stare molto attenti, non notiamo per nulla e che in un lampo svaniscono senza lasciare traccia.

Una volta Carola voleva dare un assegno al suo amico Pietro, ma all’ultimo momento esclamò “Accipicchia! Ho pasticciato la mia firma, scrivendo il mio cognome da nubile. Ahi ahi ahi, che scema sono! Dovrò fartene un altro.” Pietro, un tizio simpatico, le chiese “Scusa, ma da quanto tempo siete sposati?” Carola rispose “Quasi nove mesi.” Pietro, cercando di consolarla, le disse “Sai, la stessa cosa mi capita ogni mese di gennaio!” Cosa intendeva Pietro con “la stessa cosa”? Che anche a lui capitava (ma solo verso l’inizio dell’anno nuovo) di firmare assegni con il suo cognome da nubile? Ovviamente no. Per Pietro, l’essenza di quel che aveva fatto Carola non aveva a che fare con un nome, né con una firma, né con un assegno, ma con un automatismo la cui validità era recentemente scaduta ma che continuava a spuntare in momenti irrilevanti. In altre parole, “la stessa cosa” copriva non solo una firma scritta erroneamente sulla scia di un matrimonio, ma anche una data scritta erroneamente sulla scia di un capodanno. Però, la sua frase l’ha espressa in totale spontaneità. Per lui era un’osservazione ordinaria e semplice, un’osservazione usa e getta – niente d’interessante, certamente non un evento mentale ricco o memorabile. Per noi invece costituisce un bellissimo esempio dell’invisibilità delle analogie onnipresenti nel pensiero di ognuno.

A volte creiamo apposta analogie vivaci per provare a comunicare ad altri la nostra indignazione o perplessità di fronte a una situazione insolita. Per esempio, quando Davide ha detto a Ilaria “In Germania, le tartarughe si chiamano Schildkröten – cioè, una tartaruga è un ‘rospo munito di uno scudo’ per i tedeschi”, Ilaria è stata presa alla sprovvista da quest’espressione che le sembrava irrazionale, e per condividere con Davide la sua perplessità, ha inventato lì per lì un’immagine analoga ma di fantasia, dicendo “E allora un’aquila com’è vista dai tedeschi – come una mucca munita di piume?” In un lampo, Ilaria ha costruito un’analogia caricaturale per trasmettere con efficienza ed eloquenza la sua reazione molto personale e idiosincratica.

Poi io una volta, per esprimere la mia indignazione nei confronti dei bastoncini sottili di legno offerti da Starbucks per mescolare il caffè, ho inventato uno scenario di fantasia sulla riva di un lago: qualcuno vuole noleggiare una barca per un’ora e l’impiegato gli porge, invece di un paio di remi, un paio di giavellotti. Vi chiederete “Ma come si può remare con dei giavellotti?” È esattamente il punto della mia analogia caricaturale: non è possibile, e così vi ho trasmesso la mia perplessità e indignazione davanti a bastoncini sottili offerti per mescolare il caffè. È una cosa che non ha senso!

Queste due analogie caricaturali, anche se erano solo analogie da usare e gettare, avevano una certa sottigliezza, e per trovarle ci è voluta un po’ di creatività. E così ci stiamo avvicinando, a poco a poco, alla creazione di analogie in domini astratti, come quello della scoperta scientifica. Prendiamo la fisica. Anche se si sarebbe portati a pensare che Albert Einstein avesse una mente che funzionava grazie a una logica inoppugnabile, questo è un abbaglio. Il pensiero di Albert Einstein abbondava di analogie, e non parlo dei miliardi di categorizzazioni fatte in un lampo, come quando chiamava “calzini” certi tubi di stoffa attorno ai suoi piedi. Questi piccoli atti mentali erano certo analogie, non c’è dubbio, ma non è di essi che sto parlando. Sto parlando delle profonde analogie scientifiche scoperte da Einstein.
Prendiamo l’esempio che egli ha sempre descritto come l’idea più audace della sua vita. Nel XIX secolo, fu stabilito oltre ogni dubbio che la luce consisteva di onde elettromagnetiche. Gli esperimenti di Young e Fresnel mostrarono che la luce si comportava in modo analogo al suono e alle onde dell’acqua. Maxwell aveva trovato un’equazione d’onda per la luce. Il caso era ineccepibile. Tuttavia nel 1905, il suo annus mirabilis, Albert Einstein considerò un’analogia tra un gas ideale (molecole che rimbalzano qua e là dentro un contenitore) e un corpo nero (un contenitore assolutamente vuoto in cui onde di luce immateriale rimbalzano qua e là, come le increspature su uno stagno). Dopo alcuni calcoli scelti con cura e con un istinto penetrante, se ne uscì fuori con due formule termodinamiche (una per ogni sistema) che sembravano identiche eccetto che per un esponente. Per il gas ideale, l’esponente era la lettera “N” – il numero delle molecole – mentre per il corpo nero, l’esponente analogo era l’energia totale divisa per una certa energia minuscola.
Einstein ipotizzò che Madre Natura gli stesse sussurrando che dentro il corpo nero l’energia era portata da quel numero esatto di molecole di luce, analoghe alle N molecole di gas! Questa idea contraddiceva tutto quello che i fisici a lui contemporanei credevano in merito alla luce, ma per Einstein l’analogia era così convincente che, malgrado lo scherno universale, tenne duro. Alla fine, nel 1923, gli esperimenti di Arthur Holly Compton rivelarono che l’idea di Einstein era giusta. Il fotone sfuggente fu finalmente sfoggiato!

Se l’analogia è il nucleo centrale della cognizione, dobbiamo concludere di essere creature irrazionali? Benché il pensiero analogico non sia deduttivo, le analogie ci forniscono costantemente inferenze acute e perspicue, conducendoci a fare ipotesi su nuove situazioni sulla base delle esperienze avute in situazioni passate. Per esempio, se “mettiamo” una “cartella” sulla “scrivania” virtuale e usciamo per una pausa durante la quale nessun altro la “tocca”, presumiamo che si troverà ancora lì quando torneremo. Inoltre, possiamo mettere dei documenti in quelle cartelle, mettere le cartelle dentro altre cartelle, e buttarle via tutte.
Tutto questo avviene per gentile concessione di un’analogia. Facciamo assegnamento migliaia di volte ogni giorno su conclusioni tratte per analogia – di fatto, scommettiamo le nostre vite su di loro per tutto il tempo. Quell’uomo che sta camminando verso di me mi spingerà nel traffico? Non ho una dimostrazione rigorosa e logica che non lo farà, ma la mia esperienza con altre persone è che non è questo quello che di solito accade.

Considerare l’analogia come il nucleo centrale della cognizione è incompatibile con l’idea che il pensare possa essere oggettivo, e che esistano verità raggiungibili col puro pensiero? Nient’affatto. Un’analogia semplicemente fornisce una prospettiva nuova, come fanno i microscopi, i telescopi, e molti altri dispositivi. Benjamin Franklin vide un’analogia tra il fulmine e l’elettricità, e fece delle predizioni basate su di essa. Lyndon Johnson pensò di vedere nel Vietnam una tessera di domino che, se fosse caduta, avrebbe fatto cadere anche le tessere vicine, l’una dopo l’altra. Per come sono andate le cose, Franklin aveva ragione e Johnson si sbagliava. Infatti, le analogie possono essere messe alla prova proprio per il loro potere di far trarre conclusioni da una catena di ragionamenti. Il fatto che data qualsiasi situazione, molti punti di vista possano essere presi in considerazione non significa buttare via la verità.
L’analogia è il nucleo centrale della cognizione? Sì. L’analogia è irrazionale, soggettiva, e concreta? Proprio così, ma è anche il sostegno della razionalità, dell’oggettività, e dell’astrazione. L’analogia non è un prodotto raro e squisito del pensiero; non è la Cuorgnè della cognizione. L’analogia è l’intero sistema dei trasporti della cognizione, pervadendo tutto il pensiero, dai commenti buttati lì senza pensarci fino alle più profonde intuizioni artistiche e scientifiche. Lungo tutto lo spettro, l’analogia ci fa vedere il nuovo in termini di ciò che è familiare.

L’analogia è la macchina che ci permette di usare il nostro passato per orientarci nel presente. Attraverso milioni di analogie lungo tutto il corso delle nostre vite, costruiamo migliaia di categorie robuste e flessibili; attraverso veloci analogie fatte in frazioni di secondo recuperiamo le categorie appropriate, basandoci su indizi impercettibili che rivelano quello che conta e quello che non conta in una situazione. Così sopravviviamo nel mondo, così comprendiamo il mondo, e così assaporiamo il mondo.

Dall’oggetto nel giardino riconosciuto come una tartaruga fino ai tubi di stoffa riconosciuti come calzini, dal piccolo Armando che vide la “mammità” della persona che stava badando a Luigi fino al grande Galileo che vide la “lunità” dei puntini che stavano oscurando il disco di Giove, dal fisico Feynman che era seduto lì fino all’amico Pietro che ogni mese di gennaio faceva “la stessa cosa” che Carola aveva fatto, dai cani dolci ma pericolosi fino ai non-piccioni non presi con non-fave in tanti contesti tanto diversi, dalla bimbetta che “spogliò” la sua banana fino al genio di Albert Einstein che immaginò un corpo nero come un gas ideale per scoprire il fotone, dappertutto si tratta di un solo processo che pervade i nostri cervelli e ci rende esseri pensanti. Questa è una visione unificata della cognizione, e l’analogia ne costituisce non la Cuorgnè ma il cuore. Possiamo sperare che questa visione sarebbe piaciuta ad Aristotele, primo esploratore delle analogie proporzionali; infatti, a me piace immaginare che questa visione sarebbe stata ad Aristotele come Bononia e la sua universitas stanno a me – cioè, a cuore.

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