Competenza digitale e pensiero computazionale
Il pensiero computazionale richiede un profondo cambiamento della didattica, da trasmissiva a laboratoriale. La voce di un esperto sull’apprendendimento digitale a scuola, a partire dall’introduzione dell’informatica nei curricula scolastici.
Il documento del governo “La Buona Scuola” inverte la rotta del Piano Scuola Digitale; niente più LIM e nativi digitali ma coding e digital makers. In parallelo il piano MIUR “programma il futuro” invita le scuole, a partire dalla scuola primaria, a cimentarsi con la programmazione.
Nelle recenti “indicazioni nazionali per il curriculo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione”, però, non si trova traccia di coding e pensiero computazionale.
Il quadro di riferimento delle indicazioni sono le competenze-chiave per l’apprendimento permanente definite dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione Europea. Delle otto competenze chiave, quella digitale “consiste nel saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie della società dell’informazione per il lavoro, il tempo libero e la comunicazione”.
La decisione del governo inglese d’introdurre l’informatica nel curriculum ha probabilmente influenzato le scelte italiane. Per capire meglio quello che sta succedendo, bisogna ripercorrere la storia dei computer a scuola e del ruolo della programmazione, prima di moda poi abbandonata e ora di nuovo in auge.
Anche se la storia dei computer nell’educazione inizia negli anni 60, è alla fine degli anni 70, con i primi personal computer, che questi entrano in maniera diffusa a scuola. Nei primi personal computer sono quasi inesistenti i programmi applicativi, ma un linguaggio di programmazione (spesso il Basic) è incluso, poiché ci si aspetta che molti praticheranno il “bricolage informatico”. Nelle scuole si sviluppano numerose iniziative di avvio alla programmazione sia promosse dagli insegnanti sia a regia governativa. Tuttavia, l’evoluzione di hardware e software rende sempre più facile l’interazione con i computer grazie allo sviluppo d’interfacce grafiche e di applicativi facili da usare. Il “bricolage informatico”, quindi, passa in secondo piano fino a quasi scomparire.
Hypercard è l’ultimo ambiente di programmazione incluso in un computer e che ha coinvolto un gran numero di utenti. La programmazione torna a essere un’attività per specialisti.
Anche a scuola, gradualmente si è passati da un interesse centrato sull’integrazione di elementi e metodi propri dell’informatica nei programmi scolastici, a un approccio volto allo sviluppo di metodi e pratiche basate sull’uso delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (TIC) per migliorare e innovare i processi di insegnamento/apprendimento nei vari ambiti disciplinari. Per chi usa un computer, a casa e/o a scuola, si passa da una cultura del creare a una d’uso, è da questo contesto che nasce la definizione di “competenza digitale”.
La rivoluzione informatica, che caratterizza in maniera pervasiva la nostra società, ha stimolato riflessioni sui fondamenti della disciplina e sulle caratteristiche del suo pensiero. Pensiero computazionale è il termine che identifica questo dibattito da quando Jeanette Wing nel Marzo 2006 ha pubblicato un breve articolo su Communication of ACM intitolato, appunto, Computational Thinking. Nell’articolo si sostiene che il pensiero computazionale contiene competenze e concetti utili a tutti e non solo agli informatici.
L’articolo ha stimolato un vivace dibattito internazionale e riflessioni di istituzioni prestigiose come, per esempio, National Research Council (USA), Royal Accademy (UK), Académie des sciences (FR).
Nasce da qui la richiesta dell’introduzione dell’informatica nei curricula. Anche l’industria informatica che, consapevole del suo peso, chiede alla politica di aiutarla a formare la forza lavoro di cui ha bisogno, sta promovendo iniziative per insegnare a programmare nelle scuole. L’ora di codice – promossa tra gli altri da Apple, Facebook, Google, Microsoft – propone quiz di difficoltà crescente da risolvere assemblando, come fossero mattoncini LEGO, le istruzioni che compongono la soluzione. Così s’impara a programmare giocando.
In molti documenti che propongono l’introduzione di coding e pensiero computazionale a partire dalla scuola primaria, si citano i lavori di Papert per dire che, mentre ogni disciplina sostiene d’insegnare agli studenti a pensare, l’informatica lo fa in modo operativo e reificato. Papert ritiene la programmazione uno strumento utile per imparare a pensare, ma non che la programmazione per sé – come un nuovo latino – migliori le capacità di pensiero. Non si deve insegnare ai bambini la programmazione ?ne a se stessa, ma a usare le conoscenze legate alla programmazione per creare contesti dove esplorare idee potenti come la geometria differenziale con il micromondo della tartaruga o il feedback con i robot LEGO.
Le idee di Papert sono ancora attuali, ma è utile ricordare che l’attuazione di quelle idee richiede un profondo cambiamento della didattica da trasmissiva a laboratoriale, strutturata per progetti, che incentivi la collaborazione e la discussione.
Il dibattito che si è sviluppato nella consultazione de “La Buona Scuola” sul pensiero computazionale ha evidenziato una richiesta di definizione di un curriculum e d’iniziative di formazione degli insegnanti.
Se l’informatica diventerà davvero uno strumento per pensare dipende da cosa si farà in classe dopo l’ora di codice e da come evolverà la scuola dopo la riforma annunciata dal governo.
Per approfondire:
• I computer e le culture del computer (Seymour Papert)
• Informatica e pensiero computazionale nei curricula.
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Augusto Chiocchiarello