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La “buona scuola” guardando alla sostanza

Pubblicato il: 12/09/2014 05:36:59 -


La pubblicazione del documento del governo sulla scuola porrà fine alla politica dei mezzi annunci e alla civetteria dei ministri che sembrano divertirsi a giocare con le parole prima di far capire? Qualche riflessione sugli interventi per la scuola.
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Finalmente non si tratta più di annunci e di scoop, il documento sulla “buona scuola” sta lì sotto gli occhi di tutti, ma l’attenzione è ancora focalizzata sui numeri e sulle grida, più che sulla sostanza dei problemi. Questo governo era partito bene quando aveva, con giusta enfasi, indicato nella scuola una priorità strategica, cominciando dalla stabilità degli edifici e dalla loro riqualificazione.
Che poi alla fine si arrivi a discutere sui precari e sui supplenti, come priorità dei problemi della scuola italiana, rischia di essere un triste, ma non eludibile, epilogo. Triste, perché si parla di persone, di attuali e futuri studenti, ma soprattutto dell’incapacità del nostro sistema di costruire il lavoro nella scuola come una professione e, ancor peggio, di dare ai giovani, che vorrebbero accostarsi a questa professione, un segnale di rifiuto, se “vuoi mettiti in coda, poi si vedrà”.

Il documento del governo pone fine alla girandola dei numeri, ora stanno lì tutti in ordine, classificati per anno e indicati con etichette, che solo il consueto, raggelante umorismo ministeriale riesce/è riuscito a produrre (GAE, Congelati SISS, TFA primo e secondo ciclo, per fare solo qualche citazione amena). Stupisce che nella valanga di commenti, che in questi primi giorni sono stati prodotti, difficilmente si trovi qualche esperto che ponga una semplice domanda: ma quale cultura ha prodotto tutto questo immane pasticcio?
E ancora, dove sono i responsabili di tutto ciò?
Non certo i precari che evidentemente, negli anni, sono stati pedine di giochi complessi e di equilibri sociali che li hanno portati a fare i trapezisti, dotati di capacità divinatorie per azzeccare la graduatoria e la provincia giusta. Tra i tanti che negli anni hanno parlato di cultura della formazione, dei licei classici come i gioielli di famiglia da preservare, di legalità ecc., difficilmente qualcuno ha sentito il bisogno di dire che la scuola italiana, unica, credo, tra i paesi civili o detti tali, stava producendo mortificazione e disincanto in persone obbligate a concorrere per insegnamenti talora obsoleti e a incollare ore di supplenza, sperando nelle influenze stagionali, più che nelle maternità, visto che l’età delle docenti italiane si allontana sempre più dalla fertilità.
Se qualche cosa si dovesse rottamare nelle stanze in cui tutto questo si è prodotto, e non solo al ministero, il lavoro sarebbe tanto e forse anche utile, ma la partita che si deve giocare in questo anno, “sospeso” tra precariato e stabilizzazioni di massa, sta tutta qui: come evitare l’escamotage di produrre la stabilizzazione su una cattedra non vera, perché una cattedra vera vuol dire un’attività di insegnamento, corrispondente a una qualche esigenza formativa degli studenti o degli utenti dei servizi scolastici.
Forse qualcuno ricorderà che nuclei di “assistenza per le emergenze” esistevano in un tempo lontano nella scuola elementare, ma poi, per fortuna, la rivisitazione completa del modello formativo, l’introduzione della compresenza e l’istituzione del tempo pieno li aveva superati.

Se si vuole agire oggi in una prospettiva seria di cambiamento, il problema non è sistemare i precari, ma evitare che si riformino. Come?
L’esempio del tempo pieno non è fatto a caso.
Il Ministro Giannini si preoccupa della scuola media e dice che lì bisogna intervenire – e chi potrebbe negarlo – ma non sembra rendersi conto che il problema è che, al di là delle norme, l’obbligo d’istruzione di 10 anni è del tutto disatteso.
10 anni di percorso post-elementare dovrebbero garantire le fondamentali competenze di base e, nello snodo finale, rinforzare debolezze o difficoltà e orientare a percorsi successivi.

Provo a pensare a qualche cosa che si potrebbe fare e che garantirebbe posti di lavoro stabilmente utili.

1. Prima di tutto, rivedere il percorso obbligatorio puntando sulla trasversalità e la flessibilità di contenuti e metodi. Questo può sembrare molto astratto, ma se i docenti fossero organizzati in modo da progettare e gestire insieme blocchi di attività didattica, entro periodi definiti, l’ampliamento dell’organico avrebbe un senso perché permetterebbe, in tempo reale, il controllo del lavoro che si svolge, la motivazione dei giovani e degli stessi docenti e l’individuazione di spazi entro cui coltivare interessi personali e attività di rinforzo.
Su questo punto gli interventi di edilizia scolastica sarebbero veramente appropriati perché per svolgere un’attività di questo genere si ha bisogno di meno aule, ma di un numero maggiore di aree di lavoro (laboratori, vi sembra troppo?) comuni e non.

2. Secondo punto, un intervento sull’articolazione delle carriere non dovrebbe portare a costruire figure aggiuntive (l’orientatore, il responsabile del sostegno ecc.) che in genere ricevono una delega e, al massimo, promuovono incontri con qualche realtà esterna, perché orientare e organizzare l’intervento di sostegno dovrebbe essere compito di un gruppo docente, non definito sulle singole discipline, ma per aree di attività.
Già oggi esistono due professionalità specifiche nella scuola italiana, che non vengono identificate in quanto tali e spesso servono solo ad accumulare punteggi, dequalificando l’azione di chi si impegna in un lavoro, che ha delle caratteristiche assolutamente evidenti: i docenti dei corsi per adulti e i docenti di sostegno.
Per i primi forse qualcosa si potrà realizzare con l’istituzione dei CPIA, ma qui si dovrà immaginare un impegno e una qualificazione specifica (non esistono al mondo corsi per adulti che funzionano secondo il calendario scolastico, per fare solo un esempio) e quindi anche sviluppi di carriera e retributivi diversi (altrimenti stiamo sempre alle nozze con i fichi secchi).
Il sostegno non può essere ridotto al giochetto di un docente per due alunni o, se va bene, per uno e mezzo, facendo riferimento alla singola scuola; il sostegno (con personale specialistico) dovrebbe essere progettato e attuato su base territoriale (reti di scuole ecc.) dando così continuità e sicurezza per tutto l’anno e non solo per il periodo in cui la scuola è aperta, e garantendo una personalizzazione effettiva degli interventi.
In assenza di un’analisi specifica di quello che chiamiamo genericamente handicap si lavora sulla dedizione e sulla buona volontà dei docenti, ma si resta all’assistenzialismo (personalmente sono terrorizzata dalla facilità con cui oggi si moltiplicano i BES). Forse allora nessuno si potrà scandalizzare se questi docenti avranno posizioni stipendiali diverse per lavoro svolto e organizzato in modi diversi.

Non si tratta quindi di preoccuparsi per l’allungamento dei tempi nell’attuazione del documento governativo, non credo che sia utile fomentare l’attesa nell’uomo della provvidenza, per poi gestire le delusioni (in questo siamo purtroppo maestri), ma di analizzare quello che non ha funzionato ed anche la difficoltà di utilizzare in modo adeguato risorse presenti e disponibili.

Sicuramente un piano straordinario per la scuola nel Sud non è più rinviabile, ma questo anno potrebbe essere utilizzato per evitare che, alla scarsità di risorse si accompagni, ancora una volta, una certa ritualità nell’interpretazione dei bisogni, che non aiuta a investire risorse, finanziamenti europei compresi.

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Immagine in testata di Wikipedia (licenza free to share)

Vittoria Gallina

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