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L’arcivernice: L’arcivernice fa cilecca (undicesima puntata)

Pubblicato il: 02/02/2012 17:09:14 -


“Ramon fece così una scoperta…: non poteva richiamare nessuno per una seconda volta”. Continua il mistero dell’arcivernice, che questa volta, però, “fa cilecca”.
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Chi aveva ragione, Antistene o Platone? Qual era il vero Socrate, quello etico, dimesso, rigorosissimo nel suo ieratico distacco, o quello delle idee in sé, del sopramondo, di quell’iperuranio che sta al di sopra del cielo?

Ramon era molto perplesso; ma era anche fiducioso, aveva l’arcivernice. Che problema c’è? Basta chiederlo a lui, no?

Ramon tornò all’immagine di Socrate, e, con delicatezza, rispalmò quella figura camusa e austera con un po’ di arcivernice.

Nulla.. L’immagine diventava più scura, madida, ma neutra, morta, inerte. Nulla.

“Socrate, perché non mi dici chi ha ragione, chi ti ha capito, Antistene o Platone?”

Ma Socrate era di carta, carta bagnata, che non prendeva forma. Ramon fece così una scoperta, che gli provocò dapprima stordimento, poi angoscia: non poteva richiamare nessuno per una seconda volta.

Ma perché mai? D’altra parte, l’arcivernice stessa non era un mistero, e dei più inspiegabili? Ramon aveva la configurazione mentale dello scienziato. Come andava a buon fine questa ricerca iconica, questo raggiungere nello spazio infinito i fotoni dei Grandi che si allontanavano alla velocità della luce nell’universo in espansione?

E qui cominciò a capire una cosa, che l’arcivernice non resuscitava i morti, non riportava alla vita nessuno. Faceva solo in modo che la sua materia, qui e ora, venisse in contatto con un’altra materia, di molti anni prima, ancora organizzata chimicamente in un eterno passato. E questa singolarità poteva accadere una tantum, sotto determinate, ma ben specifiche, condizioni.

Si rammaricò allora di tutte le domande non fatte a chi aveva già incontrato, e che non avrebbe potuto rincontrare mai più, se non nei libri di storia. Non aveva chiesto a Leibniz delle monadi, ad Heidegger del tempo… Quasi gli vennero le lacrime agli occhi.

Da un lato, si ripromise di agire con più attenzione, e di preparare bene lo schema delle cose fondamentali che gli bruciavano dentro, prima di tornare a evocare un grande pensatore. Dall’altro, si ripromise di aggredire meglio il mistero dell’arcivernice ricorrendo ai grandi della scienza. Forse Maxwell, o Einstein, potevano aprire una breccia nella roccia del mistero.

Ma per questi incontri non era ancora pronto, doveva studiare di più.

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Note bio:
Maurizio Matteuzzi, insegna Filosofia del linguaggio, Teoria e sistemi dell’Intelligenza Artificiale e Filosofia della Scienza presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna. Studioso poliedrico, ha rivolto la propria attenzione alla corrente logicista rappresentata da Leibniz e dagli esponenti della tradizione leibniziana, maturando un profondo interesse per gli autori della scuola di logica polacca (in particolare Lukasiewicz, Lesniewski e Tarski). Lo studio delle categorie semantiche e delle grammatiche categoriali rappresenta uno dei temi centrali della sua attività di ricerca. Tra le sue ultime pubblicazioni: L’occhio della mosca e il ponte di Brooklyn – Quali regole per gli oggetti del second’ordine? (in «La regola linguistica», Palermo, 2000), Why Artificial Intelligence is not a science (in Stefano Franchi and Güven Güzeldere, eds., Mechanical Bodies, Computational Minds. Artificial Intelligence from Automata to Cyborgs, M.I.T. Press, 2005). Ha svolto il ruolo di coordinatore di numerosi programmi di ricerca di importanza nazionale con le Università di Pisa, Salerno e Palermo. Fra il 1983 e il 1985 ha collaborato con la IBM e, a partire dal 1997, ha diretto diversi progetti di ricerca per conto della società FST (Fabbrica Servizi Telematici, un polo di ricerca avanzata controllato da BNL e Gruppo Moratti) riguardo alle tecniche di sicurezza in informatica, alla firma digitale e alla tecniche di crittografia.

Maurizio Matteuzzi

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