Nativi digitali e “homo diversamente sapiens”
Trascrivo, quasi integralmente, una notazione a margine del report del monitoraggio sull’esperienza cl@ssi 2.0 che mi fu commissionato a suo tempo (40 scuole sull’intero territorio nazionale, visitate di persona) e che attiene a considerazioni già sviluppate su queste pagine (“Ancora (!?) sui nativi digitali” e “A proposito di scuola digitale”… ) e che forse meritano approfondimenti.
… Per l’incarico che mi è stato dato dovrei mettere sotto osservazione l’effettiva capacità della classe digitale di far crescere i livelli di apprendimento, e invece sono attratto tra meraviglia e preoccupazione, dalle mani degli studenti e dal loro lavoro.
Nelle prime visite alla classi, quando tale attenzione era solo uno spunto iniziale, mi giustificavo ricordando a me stesso tante assennate considerazioni relative sia alla necessità di compensare in armonia sviluppo intellettuale e sviluppo fisico “stiamo parlando di cuccioli in crescita, non di professionisti della produttività, per bacco…”; ma anche azzardi antropologici su ovvietà del tipo … la civiltà dell’uomo nasce dal rapporto mano-cervello… Cosa potrà mai essere un cervello senza mani…?
Mi colpiva guardando il lavoro in classe dei ragazzi, la loro capacità di sfruttare le potenzialità produttive degli strumenti dell’aula digitale, creando prodotti di altissima qualità, in un circuito mano-tastiera(mouse)-occhio-cervello-video, di evidente forza e compattezza (fino alla coazione volontaria), nel quale però il contributo della mano si riduceva in realtà al movimento di due dita.
Forse era anche un poco l’invidia per la capacità di sfruttare tale potenza ad accentuare la preoccupazione con la quale chiedevo ai docenti conferma sia della mia preoccupazione circa un “sapere senza mani” sia del loro impegno a compensare, mediare, combinare i diversi modi dell’apprendere compresi quelli che richiedono manipolazione e interazione materiale con la realtà, come l’arte, la tecnologia (non è solo informatica…) la musica… Ne ricevevo risposte tranquillizzanti, sia per un verso che per l’altro.
Rimuginare pensieri sulle prospettive di ridurre l’apporto delle mani al sapere dell’uomo a “fossile”, un poco come per il mio vecchio regolo da ingegnere, o la riga e la squadra da disegno, evidentemente deforma l’osservazione. Ma lo sguardo è sempre stato attirato dalle mani dei ragazzi che si muovevano velocissime sul computer o sulla LIM (qui per fortuna con gesti più ampi) prima e più ancora che dai risultati prodotti da quel movimento. In realtà non mani (e questo mi preoccupava…) ma due dita…
Poi un giorno durante l’ennesima osservazione, quasi sopra pensiero, l’aggiunta analitica e determinata. Come potevo essere preoccupato da una possibile perdita di manualità fine? “Ti ricordi il primo Macintosh con il quale ti sei cimentato anni 80” pensavo tra me … “con il primo mouse sembravamo tutti spastici…”
Questi ragazzi sanno calibrare i movimenti fini con l’esattezza di un orologiaio…Il problema è in realtà più determinato.
Ciò che non si esercita è lo stringere, l’afferrare, il colpire e il gettare (che son simmetrici). Le dita lisciano, accarezzano, premono delicatamente, indicano… Metafore di due modi di produrre (anche sapere). Il “per forza di levare” del colpire il marmo per “liberarne” l’idea del “platonico” Michelangelo; o l’apporre successivo di morbido materiale, lisciando superfici, delle dita di Cellini o meglio di un Della Robbia…
Insomma non sarebbe tanto “la mano” a rischiare il tramonto fossile; ma è il pollice opponibile dell’afferrare e colpire… Afferrare un bastone per farne un’arma, una bandiera per piantarla, una pietra per scheggiarne altre… Stringere un pugno per colpire, ma subire nell’urto il feedback della propria violenza sulle nocche (un buon sistema di controllo della violenza tra adolescenti, ricordi?..)…”
Fine della (auto)citazione. È un argomento ulteriore a quelli presentati in “Ancora (!?) sui nativi digitali” che sviluppavano la problematica relativa ai due “approcci” alla conoscenza: quello sequenziale e analitico (il “metodo” tradizionale della nostra scuola) e quello simultaneo sintetico, potenziato e rinforzato dagli strumenti e dalle “protesi” della rivoluzione digitale. Che la civiltà dell’uomo e le “culture” che ne hanno scandito l’affermazione planetaria (lungo tutta la storia della specie “homo” senza ulteriori specificazioni, dall’”Herectus” al “Sapiens Sapiens”, passando per il “Neanderthalensis”…) siano fondate sulla interazione mano-cervello è affermazione che soffre della sua ovvietà. Ne aggiungo una che potrebbe apparire “singolare”. La forza di tale interazione sta nel fatto che sia la mano che il cervello (inteso in senso lato come insieme dell’apparato nervoso, centrale e periferico) sono in modo “specifico” a basso livello di “specializzazione”.
L’arto superiore dell’uomo non ha artigli per colpire, non ha conformazioni delle dita e dei polpastrelli per correre. Non è “specializzato” da funzioni selezionate (ciascuno può misurare tale assenza di specializzazione confrontando le “prestazioni” delle proprie mani, multifunzioni, e dei propri piedi, specializzati).
In modo speculare l’uomo ha una vista meno acuta di un uccello, un odorato rudimentale rispetto a quello di tutti mammiferi cui pure appartiene, un udito molto lontano dal range di sensibilità ultrasonica di un cane…
La coniugazione di due assenze di specializzazione produce la civiltà dell’uomo. La plasticità correlata di apparati non specializzati genera una capacità di adattamento che ha reso la specie “dominante” sull’intero pianeta. All’assenza di specializzazione “fisiologica” si sostituisce la capacità di trasformazione “progettuale” della natura: l’invenzione della “tecnologia”, la creazione di “protesi artificiali” che si sostituiscono alla specializzazione fisiologica.
Un altro modo per indicare tutto ciò ( e sottolineare un tratto essenziale aggiuntivo) è ricordare che, sotto il profilo di questa assenza di specializzazione l’uomo può considerarsi un “animale neotenico” ( mai adulto). Cioè che conserva per tutta la sua esistenza la capacità evolutiva che è propria dell’embrione. (O, se si vuole, per estensione di significati, che “anticipa” permanentemente le caratteristiche proprie dell’adultità compiuta). Una plasticità apprenditiva permanente. D’altra parte potremmo sostenere (forse) che il massimo dell’apprendimento coincide con il momento della fine della vita…
Ne discendono tre considerazioni essenziali per chiunque si occupi di “formazione” (massime i docenti).
La prima: tale plasticità ha una oggettivamente correlata manifestazione “soggettiva”.
Proprio l’assenza di una specializzazione specie-specifica sta alla base di una estesa variabilità soggettiva (di grande potenzialità evolutiva…). Anzi sta alla base della “invenzione” del soggetto che è fondamento della “filosofia dei greci” (gli inventori, strictu sensu, della “filosofia”). La scoperta (invenzione?) del soggetto e della sua “dualità tragica” con il mondo, la natura, il destino, la morte che segna l’origine della nostra civiltà “tecnologica”. L’uomo (ciascuno: hoi antropoi..) è, in questa prospettiva che supera i vincoli specie-specifici, sempre “homo diversamente sapiens”.
La seconda: tale plasticità comune ad entrambi gli “apparati” (l’arto superiore e il sistema cerebrale) vive nella dimensione della interazione , e dunque di interferenza reciproca, nella “interpretazione” della realtà, dalla riproduzione per immagini alla creazione linguistica. Due esempi estremi, per semplificare l’argomentazione.
La mano che ha tracciato i graffiti delle grotte di Lescaux ha colto animali in posizioni di movimento che oggi non saremmo capaci di riprodurre e di imitare se non dotati di una macchina fotografica (la protesi tecnologica). Coerentemente, in molte lingue di popolazioni vicine alla civiltà di raccoglitori e cacciatori, esistono parole diverse per indicare il medesimo animale (per esempio un coniglio) mentre corre, mentre salta, o mentre è fermo (vedi le diverse elaborazioni di J. Diamod, da “Armi acciaio e malattie” a “Collasso”). In una vignetta risalente all’epoca della meccanizzazione forzata dell’agricoltura sovietica, un ironico commentatore presentò l’immagine di una giovane contadina che si accingeva a mungere un trattore. (Aneddoto ricordato da E.J. Hobsbawm in “Il secolo breve”). La giovane aveva sicuramente “imparato” a condurre il trattore, ma applicava alla novità della macchina il suo immutato tradizionale “quadro di senso”.
La terza: sulla plasticità dei supporti fisiologici e sulla soggettività evolutiva ad essa connessi (homo diversamente sapiens) e dunque sui diversi “modelli di combinazione” che hanno caratterizzato le diverse culture umane, ha retroagito in termini selettivi (scale di valori, selezione di “verità”, validazioni sociali) non la “filosofia”, ma il “modo di produzione” (mi si perdonerà la semplificazione ammiccante). Cioè le modalità concrete di trasformazione della natura e i rapporti sociali di appropriazione e lo sviluppo della “protesi tecnologica”. Semmai cattiva filosofia è quella che ha voluto prescindere da tale realtà, proponendosi come “ideologia”.
Che dire di un Cicerone che afferma “nec quicuam ingenuum habere potest officina” e ancora “opifices omnes in sordida arte versatur” (“la bottega artigianale non si concilia con la condizione di uomo libero” e “ tutti gli artigiani praticano un basso mestiere”). Ma anche Seneca per il quale i compiti dell’artigiano sono vili e volgari e non hanno niente a che fare con le vere qualità dell’uomo (”ad virtutem non pertinent”). Scelgo volutamente gli esempi interrogando il (supposto) modello alto di riferimento della “cultura (scolastica) nazionale”, in merito della consapevolezza del rapporto mano-cervello. Naturalmente, a proposito di ideologia, non si deve trascurare il fatto che Cicerone ricavava parte consistente della sua ricchezza personale dalla produzione di laterizi, per altro contrassegnata con tanto di marchio… E della fonte di reddito di Seneca, sotto tale profilo, è bello tacere…
Se decliniamo tali osservazioni critiche sul piano specifico della “filosofia dell’educazione” potremmo riscontrare che, anche a prescindere dalle interpretazioni “filosofiche/ideologiche”, la sensibilità verso una assennata combinazione delle “plasticità” del rapporto mano-cervello è stata sempre presente almeno in gran parte della elaborazione fondamentale di un “ideale pedagogico” finalizzato ad una ricostruzione di una “forma hominis” assennata ed armonica.
La elaborazione di un “ideale” formativo capace di equilibrare acquisizione concreta di esperienza “manipolatoria” con la realtà e “concettualizzazione” (costruzione del sapere) ha contrassegnato il pensiero dei padri della pedagogia (da Piaget, a Dewey, a Freinet, alla Montessori). Fino all’ideale di “uomo multivalente” di alcune immagini marxiane. Semmai vi è da rileggere, in questa chiave, i tratti specifici del modello nazionale di istruzione e di “cultura della scuola”, non tanto o solo sotto il profilo degli “ideali pedagogici”, quanto delle ispirazioni concrete, delle scale di valori riconosciute, degli immaginari gerarchici e delle loro traduzioni istituzionali che hanno contraddistinto l’assetto del nostro sistema di istruzione e che continuano ad operare in esso come elementi di “lunga durata” nell’ispirarne le politiche scolastiche concrete. (Da qui le provocazioni volute su Cicerone e Seneca…).
Per ciò che appare, per ciò che è, e per ciò che deve essere. (così il ”quadro filosofico” è completo).
La mano dell’immigrato calabrese, strappato alla sua campagna, e portato alla catena di montaggio di Torino negli anni ’60 che trasformazioni ha subito ? E il suo immaginario legato alla mano? Si tentò una risposta all’interrogativo attraverso la “scuola di massa” (la scuola media d’obbligo, oggi mortificata da un “superficiale” giudizio di anello debole… Come se le condizioni sociali fossero le stesse e il problema non fosse invece quello di ridisegnare diverse “funzionalità sociali”. Singolare miopia di acclamati “scienziati sociali”). Del resto i sistemi di istruzione nazionali si sono affermati ovunque declinando insieme una “ideologia” del sapere (un modello di combinazione delle plasticità del rapporto mano-cervello) “conforme” al modello delle gerarchie dominanti, e una ipotesi di “funzionalità” tra la formazione e le convenienze del modo di produzione e appropriazione della natura (secondo il grado di sviluppo della tecnologia).
Sotto questo profilo l’istruzione di massa che è esperienza specifica dei modelli di welfare della seconda metà del ‘900 è legata, certo con la dialettica implicita nelle considerazioni precedenti, con l’affermarsi del nodo di produzione proprio della produzione industriale di massa.
Oggi la problematica (ideologica?) dei “nativi digitali”, quali conseguenze comporta nella riorganizzazione istituzionale del sistema di istruzione? Quale assennata ricombinazione tra mano e cervello si vuole praticare in sede di formazione (Altra questione è la selezione della combinazione “efficiente” rispetto al processo di appropriazione della natura e al “modo di produzione”).
La potenza degli strumenti della rivoluzione digitale rappresenta un differenziale positivo nei processi di formazione, ma anche un potenziale di conformazione/deformazione nella combinazione assennata della plasticità antropologica del rapporto mano-cervello.
(Esattamente nella stessa misura per cui viene potenziato e privilegiato “un” approccio al sapere ed alla conoscenza, quello simultaneo e sintetico, come sottolineato nell’intervento precedente “Ancora(!?) sui nativi digitali”). Il contesto di “formazione” non può semplicemente ridursi ad assumere i parametri di “produttività” immediata dell’uso di strumenti e tecnologie. Deve interrogarsi sulla combinazione ottimale e pertinente degli elementi costitutivi di una “adultità” del soggetto nell’esercizio fondamentale della “deliberazione” sui significati, e sulla integrazione fondamentale tra mano e cervello, tra pensiero e capacità di intervento manipolatorio sulla realtà. Non si mungono i trattori.
Sotto questo profilo le due posizioni polarizzate assunte da chi rifiuta di misurarsi con la “domanda” che proviene dal “modo di produzione” (la funzionalità tra formazione e scambio economico), in nome di una “gratuità” della cultura, e di chi, al contrario promuove tale corrispondenza come risolvente dei dilemmi della “convenienza” della formazione (il valore di scambio delle “competenze”) appaiono entrambe inadeguate a declinare il senso ed il valore della formazione. (Vedi vaniloquio relativo alla necessità di “investire” (!?) in istruzione).
La portata del problema ha un ordine di grandezza più che rilevante: io credo che lo sviluppo e la diffusione delle tecnologie digitali nella formazione abbia conseguenze “rivoluzionarie” capaci di porre i discussione categorie interpretative fondamentali come “programmi”, “discipline di insegnamento”, “indicazioni”, “ordinamenti”, “organizzazione didattica”, “classi”, “classi di concorso”, “curricoli”, ecc.. Per tacere di variabili fondamentali come l’organizzazione dei tempi, degli spazi e dell’ambiente (spazi, tempi e relazioni) di formazione.
Nessuna suggestione e nessun adattamento alla “meraviglia” della natività digitale può sostituire la faticosa esperienza della “combinazione ottimale” degli elementi della plasticità antropologica che, connaturati alla specie “homo diversamente sapiens”, vanno declinati in questa fase di rivoluzione tecnologica e della produzione e riproduzione della cultura e dell’informazione a livello planetario.
Vorrei infine sottolineare, per concludere in coerenza queste note, il rischio di “chiusura” che alcune elaborazioni attuali, il cui fascino è proporzionale alla assertività con cui vengono proposte come “soluzioni innovative” rispetto al modello tradizionale del nostro fare scuola, contengono implicitamente.
Costrutti come “specializzazione”, “competenze”, “eccellenza”, “merito”, se non sono esplicitamente rielaborati contengono contraddizioni radicali rispetto alle problematiche proprie della “formazione” (forma hominis…) e segnalano pericoli impliciti (e reali) di subalternità a categorie selettive che provengono direttamente dal “modo di produzione” e dai rapporti che lo regolano.
Come ricordavo nel mio intervento precedente (“Ancora (!?) sui nativi digitali”) l’opera di formazione “deve” misurarsi con la sfida di “insegnare al tacchino ad arrampicarsi sugli alberi”. Non può rassegnarsi a “prendere atto” delle diversità soggettive in termini di attitudini e competenze acquisite. La formazione è un compito che va oltre il paradigma del “risultato” e i suoi parametri di produttività.
Deve al contrario consegnare al soggetto le condizioni potenziali di una “combinazione originale” degli elementi di plasticità combinatoria che caratterizzano il suo originale e irripetibile substrato psico antropologico. A partire dalla combinazione specifica di mano-cervello che è congiuntamente carattere individuale e carattere storico sociale legato ai “modi di produzione” e di trasformazione della natura.
Se si vuole mantenere la distinzione-indipendenza tra formazione e condizionamenti economico-produttivi il problema da affrontare non consente il semplice rifugio in un supposto “primato umanistico” ma si proietta in una capacità di immaginare e ricostruire una dimensione “onnivalente” dell’uomo. Forma hominis juxta propria principia, appunto. Con Tommaso, con Marx, con Goethe e Shiller.
Marchionne, ma anche Mastrocola, sono un’altra cosa.
Franco De Anna