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Se 18 vi sembran pochi… (parte prima)

Pubblicato il: 16/12/2013 16:36:42 -


Il dibattito sull’indugiare o meno sui banchi oltre i 18 anni e sulla riforma dei cicli scolastici continua nell’intervento di De Anna, membro della commissione nominata dal precedente Ministro, per valutare e formulare proposte sulla questione.
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Ho qualche personale responsabilità sul tema “fine ciclo a 18 anni” (non circa la decisione), avendo fatto parte di una commissione nominata dal precedente Ministro, alla quale era stato affidato il compito di “studiare” il problema e di formulare proposte. Non credo di rivelare nulla di segreto. Vorrei astenermi dall’intervenire, se non fosse il caso istruttivo – al di là del tema specifico – dello strano e distorto rapporto tra dimensione politica e dimensione tecnica dei problemi, che la politica è chiamata a risolvere tramite decisioni pubbliche.

La commissione ha concluso i lavori con un corposo documento regolarmente consegnato al committente, presentando un ventaglio di opzioni (la stessa commissione si era misurata con un’interessante composizione d’opinioni dei suoi membri).

Non posso né voglio riassumere quel documento. Qui m’interessa rammentare alcune condizioni e ingredienti, tra loro interdipendenti, che nelle sue proposte venivano indicati come essenziali per qualificare la politica pubblica sul problema della durata complessiva del ciclo scolastico.
Proprio la scoordinazione tra quelle indicazioni e la decisione politica (la cosiddetta sperimentazione) sta nutrendo non la discussione – inevitabile – che l’accompagna, ma molte deformazioni della discussione che rischiano di mortificare il valore delle diverse opinioni che si confrontano.

1) La prima condizione posta era “di metodo” e di valore essenziale. Si affermava, in sostanza, che modificare un elemento essenziale dell’ordinamento non può essere considerata un’opzione motivata da considerazioni “produttive” o “strumentali”.
Ogni istituzione non si limita a “funzionare” – in modo più o meno soddisfacente – ma elabora “significazione” sociale. In un’istituzione come quella scolastica i significati, riconosciuti e riprodotti nella formazione sociale, sono stratificati storicamente e trasmessi di generazione in generazione. Dunque, come si affermava in testa a quel documento, ogni intervento – quale che fosse nel merito la proposta – avrebbe prioritariamente dovuto misurarsi con tale elaborazione di significati e accompagnarsi a un impegno di confronto culturale capace di rielaborare “significazione”, insieme a innovazione strutturale.
Per essere chiari, non tanto o non solo per una questione di consenso e di “democrazia”, quanto per il fatto che in questo come in altri campi ogni “riduzionismo funzionalista” non funziona, e misura il fallimento di ogni politica pubblica sia attraverso opposizioni pregiudiziali e irriducibili, sia attraverso adattamenti opportunistici che la mandano fuori bersaglio, impedendo il cambiamento reale che la medesima politica pubblica vorrebbe promuovere.
Una precondizione di cui evidentemente non si è ritenuto di dover tener conto, forse pensando di ovviarvi attraverso lo strumento della “sperimentazione”. Non disdicevole in sé; ma nel nostro sistema è fondato il sospetto che “sperimentazione” sia spesso un modo per “non decidere” e non assumere la responsabilità della politica pubblica. E sulla sperimentazione dedicata alle scuole paritarie (scelta oggi sottoposta a correzione) preferisco rispondere con il silenzio.

2) La seconda condizione posta in quel documento, e totalmente condivisa dagli estensori, era quella che un’operazione di revisione complessiva del ciclo scolastico, per terminare a 18 anni, avvenisse in “costanza di risorse”.
Il potenziale “risparmio” di risorse dovuto all’abbreviamento del ciclo, secondo tale condizione, doveva essere riversato e riplasmato (e come?) nel sistema stesso d’istruzione.
Si trattava di una condizione generale la cui declinazione concreta è evidentemente condizionata dall’ipotesi operativa: portare il ciclo a 12 anni complessivi implica certamente un risparmio di risorse, ma di entità e di distribuzione diverse se ci si limita a rendere quadriennale l’istruzione superiore, oppure se si anticipa l’inizio del ciclo a 5 anni di età, oppure se si ristrutturano complessivamente le durate. Simulazione delle diverse opzioni di ridistribuzione del “risparmio” in relazione alle scelte possibili era indicativamente contenuta nel documento stesso.
In proposito si attendono lumi: non si può non accompagnare anche una “sperimentazione” (vedi dubbi precedenti) con indicazioni relative, pena l’abilitazione di opinioni sbrigative che accusano che la scelta “vera” sia solo quella di risparmiare (si danno così argomenti per la negazione del problema, che invece esiste come tale).

3) La terza condizione posta riguardava la suggestione del “confronto internazionale”, affrontata nei lavori della commissione ne è emersa fortemente dimensionata.
In primo luogo per la variabilità del medesimo panorama internazionale ed europeo, sia per quanto attiene all’età d’uscita dalla scuola, sia per quanto concerne la durata complessiva del ciclo di studi.
In secondo luogo per la necessità di esplorare e d’interpretare pienamente un’istanza di “cittadinanza europea” che non può essere semplicemente rappresentata dalla coincidenza di “parametri macro” (l’età d’uscita dalla scuola piuttosto che il rapporto deficit/PIL) quanto dall’effettiva e tendenziale convergenza dei “processi reali” e dei loro contenuti (dell’istruzione, piuttosto che della struttura del Bilancio Pubblico o della politica di investimento).
Anche in tal caso i silenzi alimentano risibili polemiche che agitano una superficiale “comparata” tra sistemi diversi: meglio la Germania o la Finlandia? Facciamo come la Francia o come la Gran Bretagna? E se – tutti – parlassimo invece di scuola?

4) Quarta precondizione di fondo per affrontare il problema, chiaramente posta in testa al documento, era il necessario collegamento tra una proposta – quale che fosse – di revisione della durata del ciclo di studi e la necessità di ristrutturazione interna del ciclo stesso.
Non ci si poteva, comunque, limitare ad “anticipare” il suo termine (la durata della superiore a quattro anni) o il suo inizio (cominciare il ciclo a 5 anni di età).
Ogni proposta avrebbe dovuto misurarsi con una complessa operazione di ristrutturazione interna dei cicli, dei loro punti di snodo, delle loro durata.
È evidente, in tale caso, la connessione con la precondizione “in costanza di risorse” indicata in precedenza: la ridistribuzione del potenziale “risparmio” si funzionalizzava a una distribuzione d’investimenti sui diversi segmenti ristrutturati.
Si dirà: ma come? Abbiamo appena licenziato (dopo più di dieci anni di lavoro iperstratificato) le cosiddette “nuove” Indicazioni nazionali, e voi partite con un’altra novità?
Le mie opinioni in proposito si possono rintracciare in diversi contributi (per esempio “Cuochi, ricette e ricettatori” su Pavone Risorse o “La mira e il bersaglio” in ScuolaOggi).
Vorrei qui ricordare che la questione è stata posta la prima volta nel 1971 (prima ipotesi di riforma della scuola superiore, con inizio scolare a 5 anni di età. Una “storia infinita” e irrisolta, lunga quanto la mia intera carriera scolastica da docente e da ispettore).
Fu posta una seconda volta con la cosiddetta “riforma dei cicli” (ministri Berlinguer e De Mauro).
È presente, sia pure sotteraneamente e d’immagine, in tutte le proposte di questi anni che accennano per esempio a strutture interne ai cicli stessi (le biennalizzazioni di Bertagna, le cadenze di bienni e monoenni attuali). Per non parlare di Comprensivi e curricolo “verticale” (qualunque cosa ciò voglia dire). C’è dunque un “problema” che non è inventato secondo una pretesa spending review. Ma forse – a conferma dell’affermazione precedente – “il modo” scelto per porlo rischia d’alimentare ogni negazione di esso e ogn’istanza conservatrice del “lasciare le cose come stanno”…

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Immagine in testata di Photl (licenza free to share)

Franco De Anna

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