Federalismo, spesa e investimenti nel sistema di istruzione (3 di 3)
articoli correlati
Pubblichiamo un contributo di Franco De Anna allo studio di un tema fondamentale nel dibattito politico attuale sulla scuola, e non solo. Il saggio è articolato in tre capitoli.
1) Titolo V e “federalismo scolastico”
2) Livelli Essenziali di Prestazione e valutazione di sistema. Cosa garantiscono le LEP in un sistema che evidenzia disuguaglianze molto significative?
3) Livelli Essenziali di Prestazione e investimento in Istruzione
CAPITOLO 3 LIVELLI ESSENZIALI DI PRESTAZIONE E INVESTIMENTO IN ISTRUZIONE
La predicazione universalmente condivisa (a parole) che l’investimento in istruzione sia prezioso e indispensabile per “il futuro del paese” ha trovato conforto (autorevole) in tentativi di misurazione del suo rendimento.
Piero Cipollone, sulla base di complesse funzioni econometriche sostiene che il rendimento medio dell’investimento in istruzione è del 8,9%; del 9,7 per la secondaria superiore, del 10.3% per l’università.
I rendimenti sono superiori per il Mezzogiorno rispetto al Nord: di oltre due punti per la secondaria superiore, di quattro punti per l’università.
Si tratta dei “rendimenti privati”. Per il rendimento “sociale” l’OCSE conferma sostanzialmente i dati per il nostro Paese, anche se con qualche elemento critico per la secondaria superiore.
L’approccio, e soprattutto l’istanza di quantificazione sono più che apprezzabili, ma sarebbe errato usarli semplicemente a conforto di tesi semplicistiche sulla generale convenienza dell’investimento in istruzione e ancora meno a conforto di strategie di politica scolastica.
Qui sono necessarie alcune precisazioni.
1. Il “rendimento privato” (occupabilità, speranze di carriera ecc..) si realizza attraverso due processi di segno opposto: I) l’impegno di risorse pubbliche in istruzione abbassa i costi privati (dunque aumenta il rendimento) II) l’espansione della spesa pubblica mediata dal prelievo fiscale tende ad aumentare i costi privati diminuendo il rendimento. Il risultato si ottiene dal punto di congiunzione e di equilibrio tra i due processi di segno opposto. La domanda inevitabile è quella relativa alle condizioni di ripartizione sulla collettività delle spese di finanziamento del sistema e della “mediazione” operata dal sistema della fiscalità generale. Non sarebbe male ricordare più spesso che, per esempio, i costi dell’istruzione universitaria, diretti al rendimento “privato” di una minoranza della popolazione di età che vi è iscritta, sono distribuiti socialmente a “gradiente inverso”. I molti pagano attraverso la fiscalità generale i costi diretti a pochi. Il recente riequilibrio delle “tasse universitarie” (che per altro genera sempre proteste più o meno veementi) non copre il gradiente negativo rispetto alla fiscalità generale.
2. Il rendimento privato si realizza materialmente con il successo del percorso formativo. Si consideri che il rapporto tra “costo teorico” degli studi nella secondaria superiore per iscritto, (calcolato “come se” tutti gli iscritti si diplomassero nei tempi previsti all’iscrizione) e costo reale presenta scostamenti di circa il 30% (in alcune regioni fino al 40%). Ciò significa che il rendimento “privato” è alimentato dal fatto che la collettività si fa carico del rischio connesso all’investimento, dirottando sulla spesa pubblica il costo dei “fallimenti”. Una buona condizione di convenienza all’investimento, visto che il rischio mette in gioco circa un terzo della spesa.
3. Quando si voglia affrontare una politica di investimento e si sia attenti al suo rendimento, è inevitabile considerare il fattore “rischio”. Non a caso la “fantasia” (al limite dell’irresponsabilità) e la creatività finanziaria ci hanno abituati a forme varie di contenimento, ripartizione, distribuzione collettiva dei rischi connessi a investimenti privati. La scuola non si sottrae a questa logica. È comunque un investimento a rischio: può consentire rendimenti privati, ma pone necessariamente il problema, al di là di ogni generico riconoscimento della sua necessità “per il futuro del Paese”, di elaborare un rapporto ragionevole tra convenienze degli investitori e costi del sistema.”.
4. L’analisi anche sommaria di questi dati elaborati per altro per scopi diversi (dimostrare che investire in istruzione rende “comunque”) schiude a una riflessione generale che riguarda l’assetto dei sistemi di welfare dalla crisi fiscale dello Stato in poi. La vocazione “universalistica” ha costituito storicamente l’ispirazione ideale dei sistemi di welfare, ma ha assunto, nei diversi modelli reali, riferimenti specifici per orientare il rapporto tra universalismo delle prestazioni e alimento fiscale delle risorse. Per esempio il sistema di Stato Sociale si è costruito assumendo come “figura baricentrica” quella dell’occupato della grande impresa taylorista-fordista, destinatario di servizi standardizzati quanto a sanità, scuola, previdenza. In termini isomorfi il sistema della fiscalità generale ha posto a suo fondamento il prelievo dal lavoro dipendente. La crisi fiscale dello Stato (anni ’80) ha aperto la contraddizione tra vocazione universalistica della erogazione dei servizi (dei diritti sociali) e la composizione, struttura, distribuzione della fiscalità generale.
5. Può apparire “singolare” che in un momento di acuta crisi come questo si affacci l’idea di una “diversa mediazione” (diversa dall’usuale fiscalità generale) tra investimento collettivo (come quello in istruzione) e ricchezza privata. Non sfuggirà che una simile argomentazione muove non solo le dichiarazioni mediatiche del Ministro dell’Economia (l’Italia tiene meglio degli altri nella crisi perché al debito pubblico ingente corrisponde un risparmio privato rilevante); ma anche a prese di posizione ufficiali presso la UE con la proposta di “sdrammatizzare” i vincoli comunitari sul debito pubblico, affiancandoli alla comparazione con il basso indebitamento privato. Ma all’escamotage mediatico (per altro fondato su dati reali) si può affiancare, nel caso dell’istruzione, qualche considerazione di fatto. Confrontando a livello internazionale il contributo della spesa delle famiglie alla spesa complessiva per l’istruzione (dati OCSE) si verifica che tale contributo, per l’Italia è del 3,9%; per la Francia del 5,9%; per la Spagna del 7,5%; per il Giappone del 7,7%; per gli Stati Uniti dell’8,7%; per il Regno Unito del 13,4%. Quando si afferma (ed è vero) che la spesa pubblica in istruzione nel nostro Paese è più elevata della media UE, forse aggiungendo tali dati (spesa pubblica sommata a quella privata) si verificherebbe un sostanziale allineamento.
Qui si identifica, a parità di generiche affermazioni sulla necessità dell’investimento in istruzione (proclamata da tutti), una vera e propria “discriminante politica”. Per descrivere l’alternativa in modo schematico (e un poco rozzo): abbandonare il settore pubblico alla logica del contenimento drastico della spesa in costanza di prelievo fiscale, e lasciando operare le “convenienze individuali” e la loro diseguale distribuzione sociale; oppure ricondurre la ricchezza privata (e le convenienze individuali) alla dimensione delle “convenienze pubbliche” anche attraverso strumenti finalizzati (con connessi vincoli di rendicontazione specifica) e non semplicemente mediati dalla fiscalità generale, sul cui uso la scuola rappresenta solo una voce dispersa tra le altre e con le altre concorrente.
La riflessione riprende nuovamente il dettato Costituzionale che ripropone la sussidiarietà orizzontale, le politiche del “terzo settore”.
Tra l’uso strumentale della sussidiarietà in termini di coniugazione impropria tra “statalismo e privatismo” (presente per esempio in alcune parti della proposta Aprea sulla riconfigurazione delle scuole autonome e la sussidiarietà come valorizzazione della capacità auto organizzativa delle società civile in “dialogo” e rapporto con le “autonomie pubbliche”(Proposta di Legge 953 del 12 maggio 2008 “norme per l’autogoverno delle istituzioni scolastiche e la libertà di scelta educativa delle famiglie, nonché per la riforma dello stato giuridico dei docenti”).
Anche in questo caso la determinazione dei Livelli Essenziali di Prestazione, come presidio dei diritti civili e sociali di cittadinanza, dovrebbe costituire “lo zoccolo duro” vincolante della operatività di tutti i protagonisti, e dunque il “parametro” attraverso il quale valutare rendimenti e convenienze, pubbliche e private.
Franco De Anna