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Federalismo, spesa e investimenti nel sistema di istruzione (2 di 3)

Pubblicato il: 02/09/2010 15:14:20 -


Pubblichiamo un contributo di Franco De Anna allo studio di un tema fondamentale nel dibattito politico attuale sulla scuola, e non solo. Il saggio è articolato in tre capitoli.
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1) Titolo V e “federalismo scolastico”

2) Livelli Essenziali di Prestazione e valutazione di sistema. Cosa garantiscono le LEP in un sistema che evidenzia disuguaglianze molto significative?
3) Livelli Essenziali di Prestazione e investimento in Istruzione

LIVELLI ESSENZIALI DI PRESTAZIONE E VALUTAZIONE DI SISTEMA. COSA GARANTISCONO LE LEP IN UN SISTEMA CHE EVIDENZIA DISUGUAGLIANZE MOLTO SIGNIFICATIVE?

Le rilevazioni degli apprendimenti condotte dall’INVALSI negli ultimi anni consentono di analizzare la realtà con il conforto di qualche “misura”. Le considerazioni che se ne traggono ci fanno affermare che è più che necessario “mandare a regime” tale pratica superando definitivamente la dimensione “sperimentale” (che non significa ovviamente non proseguire sulla strada dell’affinamento e miglioramento degli strumenti e della organizzazione delle rilevazioni).

Il grafico (Fig. 1) raffronta la varianza totale relativa ai risultati di apprendimento nelle classi II e V della primaria nella popolazione rilevata e la varianza “interna” alla stratificazione geografica della medesima popolazione.

Il rapporto è un buon indicatore di “equità” sociale della funzione svolta dalla scuola. Più basso è il rapporto tra le due varianze, più omogenea è la distribuzione dei risultati di apprendimento.

Fig. 1

1. È agevole riscontrare che nel Nord, dove come noto sono più elevati i risultati, essi sono anche distribuiti più omogeneamente; mentre il Sud, accanto a risultati inferiori, presenta una variabilità interna significativamente più elevata. La scuola non è in grado di appianare le differenze sociali: un obiettivo che da sempre ha costituito una sorta di “valore fondativo” per l’opinione democratica e posto (o supposto) a fondamento della stessa politica di spesa.

2. Nel passaggio dalla seconda alla quinta classe il rapporto tra le due varianze aumenta: segno che la stessa attività della medesima scuola provoca “aumento” delle disuguaglianze, e non attenuazione.

Questo non è un “effetto Gelmini”, ma è il risultato di una “storia”. E la sfida attuale è anche quella di “rivedere” certezze del passato a fronte dei risultati prodotti.

Sulla base di tali considerazioni risulta evidente che non sia sufficiente reclamare una maggiore spesa e un maggiore investimento in istruzione; ciò che può qualificare una politica scolastica è indicare priorità e scelte discriminanti (vedi Appendice).

— Cosa garantiscono i Livelli Essenziali di Prestazione in un sistema che evidenzia disuguaglianze molto significative?

Quali fattori si correlano negativamente per produrre i differenziali di risultato tra le scuole italiane, posto che il sistema ha una legge unificata, regole comuni, e che l’investitore principale segue parametri di finanziamento “oggettivi” (numero di alunni, di classi, di plessi ecc.)?

La prima risposta è quella fornita dalle ricerche internazionali e applicata dall’INVALSI stesso per l’analisi del cosiddetto “valore aggiunto”. Si tratta di correlare i risultati dell’apprendimento e di “depurarli” dall’effetto delle variabili socio-economiche-familiari del contesto. Ma ciò non dà risposte esaustive circa la maggiore varianza interna in alcune regioni, specie meridionali, rispetto ad altre e neppure tra scuola e scuola anche in contesti simili.

Vi sono, almeno ipoteticamente, altre variabili:
• La qualità degli insegnanti
• Le caratteristiche organizzative e dimensionali delle scuole
• La caratteristiche del “contesto operativo” delle scuole stesse: ambiente di formazione, tempi, spazi e relazioni educative che essi contengono
• La “cultura” del contesto locale che sappia assumere o meno la scuola come “capitale proprio”, sul quale investire e “prendersi cura”

Tralascio la prima variabile che, essendo di “livello soggettivo”, non darebbe ragione di una qualità dell’insegnamento diversamente distribuita per esempio tra Nord e Sud (quanti meridionali tra i docenti delle scuole del Nord); e del resto investire nella qualità dei docenti si pone come obiettivo politico generale, non certo differenziabile per aree territoriali.

Un recente viaggio di ispezioni in Campania e Calabria relativa ai progetti su finanziamento europeo, mi suggerisce che per dare orientamento alle risorse da dedicare alla scuola si debbano tener in conto gli altri punti elencati.

Occorre investire in ambiente di formazione, in organizzazione del lavoro, più che in “abilità professionali”; investire in “cultura” delle comunità locali, più che in “tecnologie”. Può apparire paradossale e contraddittorio, ma si deve forse ormai superare una concezione tradizionale per la quale le variabili relative alla “durata” degli insegnamenti o alla consistenza degli organici siano quelle esaustive: lo sono state in un passato caratterizzato da spesa crescente, e i cui risultati contraddittori sono quelli più sopra commentati. (Abbiamo alfabetizzato il paese, ed è un grande risultato, ma abbiamo perso la scommessa sul significato dell’istruzione come leva dell’equità e uguaglianza sociale).

Si deve tener conto che le variabili quali durata degli insegnamenti, organici… sono “filtrate” da ordinamenti (le classi di concorso, le “classi” come contenitori della didattica, le ore di lezione, insomma tutta l’incastellatura formalistica e burocratica dell’organizzazione del lavoro scolastico) limitano drasticamente la produttività della spesa stessa così indirizzata.

Diventano fondamentali gli ambienti di formazione e organizzazione del lavoro da un lato (impegno politico e sindacale conseguente e parallelo alla politica delle risorse: l’organizzazione del lavoro scolastico come campo prioritario della contrattazione) e, dall’altro, la “Cultura della scuola” e la capacità di farla percepire dalla collettività come “capitale sociale”. Questo è soprattutto un investimento che riguarda le comunità locali e che ha ovviamente un côtè di “investimento politico”.

Una considerazione fondamentale, al termine di queste riflessioni, si pone comunque con tutta evidenza. Rispetto a un passato anche recente la problematica della “valutazione di sistema” emerge come riferimento di ogni fondata ipotesi di politica scolastica, in modo ancora più preciso, una valutazione che faccia propria la problematica della definizione di standard (senza esaurirsi in ciò: conosciamo le derive di “accomodamento” che la logica degli standard porta con sé). Anche in tale caso una impresa culturale di grande portata: nel nostro sistema scolastico, presso i nostri insegnanti, la valutazione è vissuta e praticata, al meglio, in chiave “promozionale” e di “accompagnamento”.

Almeno due generazioni di docenti hanno elaborato la loro cultura professionale in proposito sulla base della Legge 517 (tra le meglio scritte nella nostra scuola). Ebbene in essa non troviamo nulla che abbia a che fare con standard, e la parola non vi viene mai neppure nominata. La sfida culturale e professionale è quella di ricongiungere tale ispirazione di fondo della cultura valutativa con la necessità di reperire e mantenere standard di riferimento per restituire razionalità decisoria alla politica di sistema.

APPENDICE

Franco De Anna

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