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Il popolo dei precari

Pubblicato il: 16/09/2009 14:51:08 -


Il precariato è diventato un fenomeno che coinvolge tutta la scuola italiana. Per quale ragione?
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In quest’ultimo periodo il precariato scolastico sembra essere notevolmente lievitato e passato da una condizione professionale ed esistenziale, avvertita soltanto dai molti interessati, a un fenomeno che per estensione e forza d’impatto coinvolge tutta la scuola italiana.

Che cosa ha determinato questo mutamento? La risposta è nota, le conseguenze meno.

Ma, prima di tentare una risposta, bisogna pur premettere che le finanziarie delle ultime due legislature hanno diversamente perseguito la realizzazione di diverse esigenze solo apparentemente contraddittorie tra loro: da un lato la riduzione degli organici del personale docente e ATA, anche in considerazione del calo demografico, e dall’altro l’esigenza di stabilizzazione di quote rilevanti di precariato.

Questo doppio binario sa da un lato penalizzava le aspettative di chi era in attesa di un contratto a tempo determinato, dall’altro consentiva di ottenere un contratto a tempo indeterminato al personale scolastico precario con maggiore punteggio e servizio.

Un bilanciamento che in tempi di vacche magre, sempre perduranti, sembrava essere coerente con le numerose variabili del sistema educativo.

L’art. 64 della finanziaria di agosto 2008 ha modificato per un triennio il precedente equilibrio, impostando la manovra di contrazione dei posti in organico nella scuola sulla revisione dell’ordinamento scolastico sia nei suoi profili organizzativi che in quelli didattici, dalla scuola primaria alla secondaria superiore.

L’esigenza di contrazione degli organici sulla base del calo della popolazione scolastica è, infatti, venuta progressivamente svanendo: i sette milioni e mezzo di studenti che hanno segnato il maggiore punto di caduta sono ormai un lontano ricordo, anche se continuano a permanere aree di minore incremento demografico al Sud e nelle Isole, gli studenti italiani sono arrivati alla quota di circa otto milioni.

Certo non deve stupire che una misura di finanza pubblica operi una correlazione così stretta tra politiche del personale della scuola e politiche educative che incidono profondamente sull’assetto ordinamentale. Tali misure, anche se toccano ogni ordine e grado di scuole, è nella secondaria superiore che incideranno con maggiore rilevanza, in vista di accorpamenti delle classi di concorso e di ridefinizione dei curricoli vigenti e dei relativi quadri orario, in particolare per gli istituti tecnici e per gli istituti professionali, che sono il nervo più scoperto dell’offerta formativa in Italia, anche a causa della ritardata attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione.

Questa correlazione non può non esserci, come in tutti i settori, ed è costituita dal nesso sempre esistente tra strutture organizzative e qualità dei servizi.

Semmai la partita si sposta non soltanto sulla “maggiore razionalizzazione dell’utilizzo delle risorse umane” secondo l’obiettivo dell’art. 64, ma sul punto di equilibrio che questo obiettivo strumentale deve raggiungere nei confronti della funzione educativa e dei “fondamentali” della scuola, in una fase di spiccata crescente domanda di istruzione sia in termini qualitativi che quantitativi.

E ancora perché questa strategia, che inevitabilmente riprende le valutazioni fatte nel Settembre 2007 dal “Quaderno bianco sulla scuola”, punta dritto, in rotta di collisione, sul fenomeno del precariato?

A questo punto è tempo di rispondere, in maniera pragmatica, agli interrogativi posti: nelle politiche del personale scolastico la leva del reclutamento è azionata, principalmente, dall’assorbimento progressivo del precariato, infatti soltanto per i dirigenti scolastici, essendo poco più di diecimila, è possibile confidare nelle ordinarie procedure concorsuali.

Le cadenze dei concorsi a cattedra sono invece ultradecennali e le relative graduatorie finiscono per essere, soltanto, una diversa sistemazione degli stessi docenti precari.

Pertanto quando ci domandiamo quali sono le conseguenze di una così incisiva contrazione dell’organico, accompagnata da una limitata quota di immissioni in ruolo (come si chiamavano una volta), dobbiamo capire che l’effetto si traduce sostanzialmente in un rallentamento e in una limitazione del reclutamento del personale docente e ATA.

Infatti le espressioni “miglior utilizzo” o “razionalizzazione nell’utilizzo delle risorse umane” sono attinenti per lo più al personale con contratto a tempo indeterminato che, in occasione di innovazioni didattiche ed educative, vedono i loro status modificato e/o ampliato in tema di formazione, di mobilità professionale o di mobilità territoriale, tutte azioni, peraltro, regolate da norme contrattuali con spiccate caratteristiche garantiste.

L’impatto sul precariato non può che essere, invece, quello di “minor utilizzo”, di rallentamento del turn over e del mantenimento di una percentuale elevata di contratti a tempo determinato sul totale del personale scolastico: mediamente il 16% pari a 131.000 docenti e il 32% pari a 78000 tra gli ATA. In realtà le predette percentuali dei precari nella scuola salgono ancora di più se si aggiunge al conteggio anche il numero delle supplenze brevi e saltuarie.

Percentuali e numeri che rischiano di permanere – se più studenti continua a voler dire solo più supplenti – come un’anomalia fisiologica, un ossimoro della scuola italiana, il cui disagio va affrontato con consapevole lungimiranza.

Per approfondire:
Il popolo dei precari (2), di Gianfranco Argenio
Il popolo dei precari (3), di Giuseppe Fiori
Il popolo dei precari (4), di Giuseppe Fiori
VIDEO Valorizzare i precari, intervista a Giuseppe Fiori curata da Carlo Nati

Giuseppe Fiori

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