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La flessibilità dell’orario, cuore dell’autonomia scolastica

Pubblicato il: 25/02/2016 08:33:18 -


Come si può evitare che la logica della "contabilità minuta", che ha impedito la realizzazione della flessibilità oraria, affossi l'organico dell'autonomia?
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La flessibilità dell’orario non è idea che nasce con la Buona Scuola. Essa è infatti regolata quantomeno a partire dal DPR 275/99, cioè a dire dal Regolamento dell’Autonomia scolastica che, all’art. 4 comma 2 stabilisce: “le istituzioni scolastiche, nell’esercizio della loro autonomia didattica, possono regolare i tempi dell’insegnamento e dello svolgimento delle singole discipline e attività nel modo più adeguato al tipo di studi e ai ritmi di apprendimento degli alunni.”

Si tratta dunque di una possibilità contemplata da quasi vent’anni e passata indenne attraverso tutte le riforme o pseudo riforme succedutesi in questo torno di tempo. In base alla normativa citata, è consentito alle istituzioni scolastiche di adottare tutte le forme di flessibilità che ritengono opportune e, tra queste, si può prevedere l’articolazione modulare del monte ore annuale di ciascuna disciplina e attività, nonché la definizione di unità di insegnamento non coincidenti con l’unità oraria della lezione e l’utilizzazione, nell’ambito del curricolo obbligatorio, degli spazi orari residui.

Ancora: nell’art.5 del Regolamento si dà facoltà alle singole scuole autonome di attuare una flessibilità oraria funzionale alle esigenze didattiche. “L’orario complessivo del curricolo e quello destinato alle singole discipline e attività sono organizzati in modo flessibile, anche sulla base di una programmazione plurisettimanale, fermi restando l’articolazione delle lezioni in non meno di cinque giorni settimanali e il rispetto del monte ore annuale, pluriennale o di ciclo previsto per le singole discipline e attività obbligatorie.” (comma 3).

Ogni istituzione scolastica può decidere, quindi, autonomamente di ridurre i canonici 60 minuti a 50/55 minuti o anche meno, come pure di “addensare” parti del curricolo in periodi più brevi e intensi, a seconda delle esigenze e necessità che emergono e che sono ritenute tali dal Collegio dei docenti, prima, e dal Consiglio di Istituto che adotta il POF, poi.

È dunque da tempo che le scuole dispongono di un efficace strumento per agire sull’orario e per adattarlo alle proprie situazioni specifiche, uno strumento sancito e regolato per legge. Ci si deve a questo punto interrogare sul perché un tale strumento “rivoluzionario” non abbia mai o assai poco funzionato.

Emergono qui l’ambiguità, l’incompiutezza, direi quasi le riserve mentali che hanno permeato e permeano tutta la legislazione relativa all’autonomia scolastica fin dalla sua prima attuazione.

Un primo indizio lo si può cogliere nel lessico e nella logica stessa che introduce l’obbligo del “recupero”, quasi che la libertà, la responsabilità e la verifica degli esiti, che sono o dovrebbero essere le virtù cardini delle scuole autonome, debbano essere “recuperate”, come stabilisce anche l’art. 28 comma 7 del CCNL 2006/2009.

L’obbligo di recuperare le ore di lezione non svolte, sia per i docenti sia per gli studenti, sussiste peraltro solo quando esso è determinato da motivazioni esclusivamente didattiche: “[…] Qualunque riduzione della durata dell’unità oraria di lezione ne comporta il recupero nell’ambito delle attività didattiche programmate dall’istituzione scolastica. La relativa delibera è assunta dal collegio dei docenti.” In questo caso la riduzione dell’ora di lezione deve essere inserita nel POF e dovrà essere recuperata sia dai docenti che dagli alunni.

Appare tuttavia paradossale che la stessa norma non preveda il recupero quando le ragioni della flessibilità e della riduzione siano estrinseche all’attività della scuola. Ad esempio, se a determinare flessibilità e riduzione sono gli orari delle corriere o dei treni, non c’è alcun obbligo di recupero disciplinare. Se si fa un progetto didattico, allora “corre l’obbligo”. Il Collegio dei Docenti, nell’approvare il POF, deve inoltre indicare le modalità di recupero delle ore di insegnamento sia per gli studenti (di cui si afferma il diritto al monte orario annuo di lezione “per ciascuna disciplina”), sia per i docenti (i quali sono naturalmente tenuti agli obblighi contrattuali delle 18 ore).

È evidente qui come la persistente gabbia delle classi di concorso e la mancata riforma dei profili professionali dei docenti determinino gli esiti pratici della norma: in primo piano non si pongono tanto la qualità degli interventi, quanto la quantità del tempo-insegnamento (non scuola!) prestato.

Altro termine chiave, accanto a “recupero”, è quello di “restituzione“: flettere l’orario e aprirlo alle esigenze didattiche di ogni singolo istituto autonomo significa dunque accendere una sorta di “prestito”, che va restituito integralmente, nella stessa valuta e con relativi interessi, cioè a dire con il tempo non conteggiato e offerto a titolo gratuito impiegato dai docenti per programmare le attività.

“Le ore da recuperare devono essere restituite, per le discipline coinvolte, da tutti gli insegnanti alle classi a cui sono state ‘sottratte’ (si parla solo di “sottrazione”, non anche del “valore aggiunto” che dalla flessibilità dovrebbe generarsi!) e non utilizzate dai dirigenti scolastici per supplenze, corsi di recupero o altre attività che non rientrano nella didattica specifica di una disciplina.”

Possiamo ben comprendere perché, con tutti questi caveat e questa contabilità minuta, la progettazione della flessibilità oraria non abbia mai decollato. È evidente che l’attuazione di tale flessibilità viene vista dall’estensore della norma con grande diffidenza, quasi fosse un mero divertissement, un’evasione dalla routine didattica, un lusso per il quale bisogna poi pagare pegno.

Il sistema per ovviare a tutto ciò ci sarebbe ed è sotto gli occhi di tutti: basterebbe – si fa per dire – conferire ad ogni scuola autonoma un organico funzionale integrale (non un organico tricipite come quello della Buona Scuola), che si basi sul numero di “risorse” e non di “cattedre” necessarie e che, una volta fissati centralmente i paletti curricolari di ogni singolo indirizzo, lasci poi alle scuole autonome libertà di scegliere modi e tempi, individuandone le responsabilità e verificandone poi l’efficacia.

Per dirla in termini sintetici, si tratterebbe di programmare
l

input
e di verificare l’output, tralasciando di entrare puntigliosamente e fiscalmente nel black box delle scuole.

Con un Piano dell’Offerta su base triennale preparato per tempo e con una parametrazione del calcolo delle risorse non rigidamente collegata al numero degli studenti/classi si potrebbe affrontare meglio anche l’indubbia complessità insita nell’avviare un processo del genere, soprattutto per quel che riguarda la determinazione delle risorse organiche.

Se invece si continua a privare le scuole autonome di tali risorse fondamentali, la stessa autonomia e la flessibilità dell’orario, che di essa è l’anima, resteranno un mero flatus vocis.

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Claudio Salone

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