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Il sé e per sé e l’accidentale: i ricercatori invisibili

Pubblicato il: 04/11/2014 12:09:33 -


Lo schiaffo ai ricercatori italiani è evidente, la politica italiana persevera a ostacolare il futuro del proprio Paese. Non ci sono parole per descrivere il danno.
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Un mio vecchio collega mi disse una volta che il vero filosofo è colui che sa distinguere il transeunte dall’eterno. L’effimero, l’evanescente, ciò che si appropria momentaneamente di una piccola frazione spaziotemporale, da ciò che è essenza, e si dà dunque, direbbe Aristotele, per sé, universalmente e per sempre.

A quale dei due corni dovrebbe appartenere la ricerca? Lo capirebbe un bambino, la ricerca deve proseguire, è una catena, indefinitamente aperta verso il futuro, che permane al cambiare degli uomini che vi lavorano, e che passano.

Esattamente l’opposto è stato sancito dal ministro Gelmini, la quale ha per legge dichiarato la provvisorietà dei ricercatori, e abolito la storica figura del ricercatore a tempo determinato. È stato un delitto grave, quello, “epocale”, nel senso che passerà agli annali, se non verrà corretto in un tempo ragionevole (e ormai in scadenza), come una delle brutture della storia dell’istruzione italiana.

E tuttavia, pur entro quell’apparato farraginoso, autoritario e incoerente, era rimasto un appiglio, un seppur difficile scoglio a cui aggrapparsi. Senza entrare troppo nei dettagli, per rispetto a chi non si occupa di ordinamento accademico (e come dargli torto, se non è costretto?), entro quel marasma, si diceva, s’istituiva una figura di ricercatore, il così detto “tipo B” per gli addetti ai lavori, che aveva disegnata davanti a sé una forma di possibile carriera razionale. Questo tipo di figura, tuttavia, costa di più, naturalmente. E, altrettanto naturalmente, in tempo di tagli selvaggi e dissennati, le università preferiscono sistematicamente il meno costoso “tipo A”.
A ovviare all’inconveniente, Profumo introdusse un vincolo, che il numero dei professori ordinari dovesse equivalere a quello dei ricercatori di tipo B. In sintesi: vuoi fare un ordinario? Allora devi assumere anche un ricercatore con possibilità di carriera (intendiamoci: non facile, c’è di mezzo il conseguimento dell’abilitazione nazionale, conditio sine qua non; e tuttavia il percorso per un giovane era chiaro: devo studiare, pubblicare alacremente per un periodo ben definito, ma se tutto va bene alla fine ho il posto).

Bene, i veri geni si vedono in questi momenti: hanno l’idea buona al momento buono. Come buttare tutto alle ortiche? Ci ha pensato il governo Renzi: basta togliere quel vincolo. Detto fatto. Siamo efficientisti, noi!

E dunque i ricercatori? Precari e basta. Dopo una laurea di cinque anni, dopo un dottorato di tre, altri tre più due da ricercatore, dopo poi? Cercati un lavoro, ragazzo (di circa quarant’anni…). Non voglio qui soffermarmi sugli aspetti umani, sull’offesa alle persone e alla loro dignità, sulle conseguenze economiche sulle famiglie (ve lo immaginate un figlio di 40 anni, magari con moglie e prole, che ti torna in casa dicendo: papà, ora sono disoccupato?).
Ma lasciamo stare. Ciò che voglio mettere in evidenza è, se possibile, ancora più tragico; o tragicomico, secondo il detto del filosofo.

Non ci sono parole per descrivere il danno alla scienza italiana. Abbiamo detto che la ricerca è una catena, e su ciò si fonda il progresso. Il vecchio consegna al giovane il suo bagaglio di studi, di libri, di esperienze, di errori. E il giovane da lì continua il lavoro, da una base collaudata.
Precarizzare i ricercatori, inducendone un caotico, forzoso ricambio, spezza inesorabilmente quella catena del sapere; mentre i precedessori, i “vecchi”, se ne vanno, al ritmo di migliaia l’anno. Geniale: ogni volta si ricomincia, da zero!

Ecco come finire di distruggere la ricerca italiana; sopravviveva malgrado i tagli, bisognava pure inventarsi qualcosa. È in questi casi, come si diceva, che l’italico genio non ha eguali.

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Immagine in testata di Hans/Pixabay (licenza free to share)

Maurizio Matteuzzi

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