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“Fondo premiale”, “Meritocrazia” e decadimento del livello della ricerca

Pubblicato il: 06/11/2013 17:14:55 -


Si può parlare di “delirio pitagorico-meritocratico” sui criteri valutativi dei docenti universitari? Se così fosse Einstein e Kant non sarebbero mai professori universitari in Italia. In pieno dibattito sui principi che regolano il “merito” nelle norme del reclutamento universitario, si aggiungono le considerazioni sul “Fondo premiale” e le conseguenze che comportano di fronte ai reali problemi dell’università italiana.
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È di queste ore la notizia che saltano i 41 milioni di euro per il così detto fondo premiale per gli atenei “eccellenti”. La cosa ha fatto inalberare i molti entusiasti del sistema del merito, la famosa “meritocrazia”. Tra i primi, il rettore di Bologna, Ivano Dionigi, che ha diffuso una lettera di protesta presso tutto il personale dell’ateneo, chiedendo anche ai docenti di leggerla prima della lezione.

La stampa ha rivolto una certa attenzione alla cosa. Da un lato è un bene che, ogni tanto tra uno scandalo e un gossip, ci si accorga del mondo dell’istruzione; dall’altro, è stata diffusa anche molta disinformazione, prodotta da chi non è molto edotto del mondo dell’università.

Varrà la pena di fare alcune considerazioni, generali e informative.

Prima di tutto, il concetto stesso di “fondo premiale” è quasi una presa in giro.
Un premio è qualcosa che si aggiunge, non qualcosa che si toglie a uno per darlo a un altro.
Il fondo premiale non è un finanziamento aggiuntivo, per incentivare i migliori, ma una semplice ridistribuzione delle (scarsissime) risorse: la dotazione complessiva, il cosiddetto FFO (Fondo per il funzionamento Ordinario), rimane invariato. Così, il premio per un ateneo significa il danno per un altro.
Non è così che si premia il merito.
Se la immagina, il lettore, una gara in cui il premio consiste nel potere asportare qualcosa a qualcun altro?
Si potrebbe spiegare così: “Lei ha vinto il diritto di rubare il portafoglio al primo che passa!”

L’ovvia conseguenza è di danneggiare pesantemente quelle aree e quelle università che già si trovano in stato di difficoltà, spesso dovute alla povertà della stessa area geografica in cui sono collocate. E anziché interrogarsi su come risollevarle, i nostri politici inventano meccanismi ancor più punitivi, con il rischio di affossarle del tutto. Cosa che alcuni hanno il coraggio di auspicare “apertis verbis”, ripetendo la macroscopica falsità che “in Italia ci sono troppe università”. Basta fare una banale proporzione tra numero di università e popolazione, rispetto a paesi che dovrebbero essere a noi comparabili, ed emerge subito la falsità dell’assunto.

Non va poi dimenticato che il sistema elefantiaco di valutazione italiano sconta parecchie pecche, a cominciare dall’indelebile peccato d’origine, e cioè che al suo vertice è posto un organismo, l’ANVUR, niente affatto terzo e composto da membri di diretta nomina ministeriale. Cosa che ricorda molto da vicino un tipo di ingerenza della politica sulla cultura che nella storia d’Italia si è avuto in un triste passato. Questo è un fatto “politico” gravissimo, a prescindere dal valore scientifico dei singoli appartenenti.
Appare ovvio che una valutazione onesta e adeguata deve essere fatta o da un’agenzia terza, o da un organo che rappresenti davvero il mondo accademico, qual è ad esempio il CUN.

Il delirio meritocratico ha invaso l’accademia con:
– criteri puramente numerici;
– indici di scarsa affidabilità, e di difficile applicazione in molti settori della ricerca;
– valutazione numerologica di ogni cosa.

Con costi sproporzionati, sottratti alla ricerca, ed esiti e vantaggi ampiamente discutibili.
Ad esempio, la corsa a pubblicare di più e anticipatamente sta provocando un drammatico calo del livello della ricerca, questione ampiamente testimoniata nel “The Economist”, (come nota su 24 Ore Guido Barbujani, supplemento domenicale 3 novembre 2013).

Il delirio pitagorico-meritocratico porta effetti evidenti.
Per fare un altro esempio, ricerche non finite e con mancanza di validazione scientifica, vengono pubblicate ugualmente a causa delle scadenze capestro, per mantenere i fondi di ricerca, o per raggiungere le mitiche “mediane” necessarie ad accedere ai concorsi.
E, in merito a questi ultimi, bene ne spiega le storture e l’illogicità Roberto Giuntini su questa stessa rivista.

Vanno infine considerate due cose:
1. basta una rapida riflessione sui parametri della nostra “numerologia”, e, facendo l’esperimento mentale di applicarla ai grandi del passato, si vede subito che avremmo bocciato Einstein in fisica e Kant in filosofia.
2. siamo sicuri che una meritocrazia perfetta sia la cultura che cerchiamo a livello universitario?
Come si fa a non capire che si creerebbero delle caste impenetrabili, immobili per sempre, con la definitiva morte della funzione di ascensore sociale che l’istruzione ha storicamente svolto per il passato?

Di fatto, la parola “meritocrazia”, come ho spiegato ampiamente altrove, è nata non a caso, come termine dispregiativo (Cfr. questo mio contributo). Da ultimo, è ora che i nostri soloni si convincano di ciò che per sua natura misurabile non è; e che spesso corrisponde al livello più elevato del pensiero umano (Cfr. questo mio contributo).

Mi permetto di dire che l’esistenza di questa forma di conoscenza è una gran fortuna, ed è ciò che determina la superiorità dell’uomo sul robot.

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Immagine in testata di JrScientis / Flickr (licenza free to share)

Maurizio Matteuzzi

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