La “Buona Scuola” sviluppa utilizzatori digitali intelligenti?
Va bene incentivare gli studenti a diventare produttori digitali, però in parallelo serve un approccio che stimoli l’utilizzo intelligente. Per questo è necessario sostenere la professionalità degli insegnanti.
Il documento-progetto per una “Buona Scuola” (da ora BS) dà un grande rilievo e un ruolo strategico alle tecnologie digitali (1). Per quanto riguarda le infrastrutture e gli interventi di base sceglie come obiettivi prioritari la larga banda nelle scuole e la gestione e l’uso aperto dei grandi dati, visto come strumento di governo e decisione a tutti i livelli.
Sul versante degli obiettivi formativi BS vuole che i ragazzi diventino produttori digitali, capaci di creare algoritmi e di codificarli. L’idea dell’introduzione della programmazione nella formazione generale, anche nella scuola primaria, non è nuova. Nel 1970 Seymour Papert, vero profeta di questa idea, si presentò alla World Conference on Computers in Education con il linguaggio LOGO e con lo slogan “Insegnare ai bambini a pensare”. L’idea pedagogica di base, antica, è che la costruzione di oggetti funziona da incubatrice per la costruzione di concetti.
Nell’età dell’informatica la costruzione è manipolazione di simboli e i linguaggi di programmazione ne sono lo strumento. Ma, per questo occorrono linguaggi la cui sintassi sia coerente con la struttura concettuale degli oggetti da costruire e la struttura logica del processo di costruzione. Da qui il grande dibattito sui linguaggi più adatti all’uso educativo (Dal LOGO al Pascal).
L’altra idea è la programmazione come potenziatore delle abilità di problem solving. Quest’idea è stata al centro di molti progetti dal Piano Nazionale per l’Informatica al Problem Posing and Solving oggi attivo. BS parte, più o meno, da queste idee e intende promuovere l’uso nella scuola primaria del sistema code.org, molto popolare nel mondo anglosassone. A parte ogni considerazione di merito la scelta di promuovere a programma ufficiale l’uso di un sistema specifico avrà il merito di essere sbrigativa, ma devia dalla consolidata abitudine d’indicare ai docenti i fini, lasciando alla loro autonomia la scelta dei mezzi.
La programmazione è anche lo strumento per azionare automatismi, animare robot o produrre automaticamente oggetti fisici, ad esempio con le stampanti 3D. Negli stand della recente Makers Faire – European Edition (Roma- Parco della musica- 3/5 Ottobre) si potevano vedere in azione i più svariati e fantasiosi robot, e le stampanti 3D. La Fiera ha anche mostrato l’esistenza di una vasta comunità formata da singoli hobbisti tecnologici, studenti e professori, enti di ricerca, associazioni. Accanto a loro le imprese che forniscono i kit di base, fra le quali l’ormai mitico Arduino. La comunità è animata da una motivazione che mescola il gusto e l’orgoglio della creazione personale, quella alcuni chiamano l’etica dell’hacker, la scelta tecno-politica dell’open source.
BS sposa decisamente la linea del produrre e ne vorrebbe fare la base per prossimi investimenti nelle attrezzature scolastiche. Ed è mossa in questa direzione più che da specifiche motivazioni pedagogico-cognitive, da una generale idea dello sviluppo di un’attitudine al “fare” inquadrata anche nel discorso sul rapporto scuola-lavoro (punto 5 di BS).
Educare gli studenti a diventare produttori non impedirà loro di essere anche, forse soprattutto, utilizzatori delle tecnologie. Questo fa nascere numerose questioni alle quali BS non da risposte.
Il problema della competenza tecnologica è stato affrontato, fin ora, in modo semplice, come perizia nell’uso dei vari strumenti software necessari per il lavoro e lo studio. La Patente Informatica ha fornito per questo uno standard europeo. Questo è molto utile perché non è vero che i ragazzi siano, in quanto nativi digitali, già esperti. Magari sono molto svelti, ma non hanno in genere una perizia sufficiente su tutti gli strumenti di base. Tanto meno sono educati a fare delle tecnologie un uso sensato, corretto, adeguato ai vari contesti di studio e di lavoro.
Molte delle critiche e delle denunce di rischio per l’uso delle tecnologie da parte dei giovani riguardano il modo di muoversi nel mondo dell’informazione in rete. Il problema è complesso perché alla necessità di sviluppare abitudini cognitive come la ricerca non dispersiva e la sintesi delle informazioni, la valutazione della loro attendibilità, la creazione di comunicazioni valide, lo scambio e la cooperazione, si aggiungono problemi di etica e di educazione civica. Serve cioè una vera e propria disciplina nell’uso delle tecnologie e la scuola può fare molto per svilupparla. Per questo non servono tanto raccomandazioni o incitamenti, ma l’integrazione delle tecnologie nella didattica di tutte le discipline e nelle attività interdisciplinari.
Purtroppo l’integrazione delle tecnologie nella didattica delle discipline non ha fatto passi avanti significativi, se si escludono quelle tecnologiche. La stesso insegnamento della matematica ha dato e ricevuto pochi vantaggi. La ragione principale è che non tutti i tipi di didattica sono utili per questo. L’insegnamento di tipo esclusivamente versativo-ripetitivo e i compiti di tipo compilativo, ad esempio, sono il miglior incentivo a un uso banale delle informazioni, come la copiatura e l’assemblaggio delle informazioni. E un insegnamento della matematica che si fermi al calcolo (numerico, algebrico, analitico) non può che vedere il computer come un nemico.
Serve una didattica in cui l’apprendimento parta dalle domande e che quindi incentivi l’indagine, il problem solving e nella quale si usi seriamente la pratica della comunicazione e della cooperazione.
Per quanto riguarda gli insegnanti, oltre all’adozione di specifici strumenti e all’addestramento al loro uso, il problema delle tecnologie nella didattica si fonde con quello di un miglioramento complessivo della didattica stessa. Ed è quindi un problema di formazione e sviluppo della professionalità, strettamente collegata alla ricerca, al confronto e alla cooperazione nella scuola.
Il che ci riporta al punto 1 della BS: le politiche del personale.
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Immagine in testata di hackNY/Flickr (licenza free to share)
Mario Fierli