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Cronache da un Liceo del futuro: secondo movimento

Pubblicato il: 16/07/2012 18:51:53 -


Per una scuola oltre la scuola. Una scuola che sia… paradiso, un “giardino” aperto dell’istruzione, o meglio ancora, della conoscenza.
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Ripartiamo dall’azzardo lanciato a conclusione della puntata precedente: la scuola metà stazione metà paradiso. Che sia una stazione, ci vuole poco per intuirlo: orari, campanelle, programmi, indirizzi, percorsi formativi, livelli di partenza e di arrivo… che sia un paradiso, beh, sembra più dura… ma da chi dipende, in larga parte? In omaggio all’impostazione musicale di queste cronache, proverò a rispondere recuperando il tema del preludio, quello dell’armonia prestabilita. Ma stavolta in senso più letteralmente leibniziano; ovvero a partire dai predicati inerenti ab aeterno alla mia monade (insomma, banalmente, la mia personale esperienza: anche se concepita come sviluppo di un’“entelécheia”…). Non attribuirò pertanto a un caso fortuito il trasferimento che, sulle linee e gli interscambi della mobilità provinciale-professionale prevista dalle nostre ordinanze, mi ha condotto senza prenotazione alla stazione del Liceo Farnesina di Roma, sede del primo e unico liceo musicale della provincia; ma piuttosto a un preciso finalismo, per quanto intelligibile solo a posteriori. Perché il suddetto Liceo, anche come scuola “normale”, ha poi rivelato troppo singolari corrispondenze con certe idee a cui in anni di “mestiere” nella scuola mi sono affezionato non meno di Paola Mastrocola alle sue, o di donna Prassede alle proprie: per dire che non le rivendico affatto come particolarmente originali, anche se non proprio “storte” come quelle del citato personaggio (manzoniano). Giacché hanno una vita tanto lunga da coincidere praticamente con la storia del pensiero pedagogico moderno; quantunque non mostrino i minimi segni di invecchiamento, forse a causa di una certa rimozione… Insomma le idee – per limitarci solo a qualche testolina – che troviamo in Rousseau e Dewey, Montessori e Vygotsky, Russel e Einstein. In una parola, quelle di una scuola fondata sulla priorità dell’educare (e-duco, “tiro fuori”) e non sull’istruire (in-struo, “metto dentro”). Idee insomma che fanno parte di un orizzonte oggi universalmente condiviso de iure, ma non altrettanto de facto, e non solo per singole resistenze soggettive, ma anche per i limiti oggettivi che non di rado condizionano un’organizzazione complessa e molto specifica qual è appunto la scuola.

Il punto, infatti, è precisamente questo: quanto tali idee siano compatibili con il sistema scolastico che tutti conosciamo (comune a tutti i gradi e perfino agli ordini di istruzione, in ogni parte del mondo), e che non può prescindere da precisi vincoli organizzativi. Quello della scuola-stazione. Già negli interventi di due anni fa accennavo al comodo alibi che trova nei vincoli oggettivi dell’organizzazione scolastica storicamente vigente da un paio di secoli (e che la “scuola di massa” ovvero la “fabbrica dell’istruzione” di cui parla Franco De Anna nel suo “A proposito di scuola digitale” ha reso di fatto ancora più rigidi) la giustificazione di certe inerzie di carattere soggettivo presenti nella nostra categoria. Sulla questione, per chi si limita al lamento cronico avverso il “sistema” non c’è rimedio; ma per i dubbiosi, e anzi per chiunque operi nella scuola a qualunque titolo (compresi noi, amici di Education 2.0), renderei obbligatoria la lettura di uno splendido intervento – uno dei rari davvero sensati a proposito di scuola che siano apparsi a mia memoria sulla grande stampa – dello psicanalista (non a caso lacaniano) Massimo Recalcati, uscito su Repubblica di sabato 2 giugno 2012 (“Elogio della classe media: così la scuola dell’obbligo fa riscoprire il mondo”: sarebbe da mettere on line, se fosse possibile, o almeno da reperire senza sforzo in una emeroteca, vista l’eccezionale fortuna della prossimità temporale). Chi poi agli alibi ha rinunciato del tutto, sa bene quanto già sia grande e soprattutto garantito lo spazio per una libera azione didattica, personale e creativa, tra le mura delle nostre aule. Ma nell’istituto di cui parlo ho trovato le prime conferme che perfino nel più ampio perimetro della scuola-stazione, id est fabbrica, possono crescere i primi quartieri, o magari dei veri e propri giardini, di una futura “città dell’istruzione” fondata su percorsi flessibili, aperti, omeostatici con il “fuori”.

Eccone gli esempi. Ho avuto in varie classi alunni assenti per un intero quadrimestre perché “distaccati” in paesi che un tempo si sarebbero detti lontani, e che restano comunque espressione di civiltà diverse dalla nostra, come Cina e India. Civiltà millenarie con cui sarà sempre più necessario confrontarsi. Ebbene, che effetto hanno avuto questi mesi di “assenza” dalla scuola sugli alunni in questione? Ma sarebbe meglio dire, precisando il senso delle virgolette: si è trattato davvero di “assenza”, di tempo “mancato” a scuola? Per fortuna no, dal punto di vista formale, essendoci alle spalle un preciso progetto dell’istituto (il liceo è infatti anche capofila storico delle simulazioni ONU-RIMUN; item che potrebbe essere assunto a paradigma di una scuola fatta dai ragazzi e richiederebbe un capitolo a sé, ma che possiamo sintetizzare con questo link: http://www.rimun.com/). Ma se qualcuno dovesse pensare di sì, dal punto di vista sostanziale, allora ben venga questo tempo di “assenza”, per i risultati che ho potuto registrare. Cioè, innanzitutto, per una immediata e sorprendente capacità degli alunni in questione di “restare al passo” con gli altri e con i “programmi”, e reinserirsi al loro ritorno in classe. E il perché l’ho scoperto parlando con questi ragazzi, e facendoli parlare in classe delle loro esperienze. Perché questi ragazzi hanno detto che sentivano di avere una responsabilità in più sulle loro spalle. Sapevano che la scuola e le famiglie avevano puntato, direi investito su di loro, e questo investimento lo volevano onorare. E si tenevano costantemente aggiornati sull’andamento delle lezioni in Italia, studiando, per quanto potevano, quello che c’era da studiare, al passo con i loro compagni di classe. E questo mentre partecipavano attivamente ad altre esperienze scolastiche e scoprivano nuovi mondi. Insomma, quei ragazzi non agivano più, soltanto, come membri della “comunità visibile”. Operavano già a pieno titolo come membri di una “comunità invisibile” (vedi puntata precedente). Agivano cioè sulla base di quel nesso fiducia-investimento-motivazione (e perfino riconoscenza) di cui abbiamo parlato nel nostro preludio.

Ancora un esempio, ma complementare, di come cioè si può costruire una scuola “aperta” anche restando “al chiuso”, cioè nel “sistema”. “Giovani per giovani” è il titolo di una originale iniziativa attiva già da tempo con eccellenti risultati nel Liceo di cui parlo, dove la scommessa è quella di trasformare gli alunni stessi in docenti-tutor dei loro compagni in difficoltà. Il tentativo, più che riuscito, è quello di riscattare dal suo grigio alone di mestizia una parola piena di buone intenzioni, ma che non a caso condividiamo con il lessico dei reclusori: recupero. Un’esperienza capace di innescare un circolo virtuoso tra saperi e carenze fuori dalla tradizionale gerarchia di ruoli, perché chi sa di più è simile, potremmo dire isomorfo, a chi sa di meno, e mentre colui che impara assimila con la leggerezza di chi è libero da soggezioni, nel medesimo tempo insegna alla sua guida la strada per meglio comunicare il proprio sapere. Quale migliore occasione di perfezionamento reciproco?

Se poi al patrimonio già evocato (Liceo musicale, distacchi all’estero, RIMUN, Giovani per giovani) aggiungessimo anche il ricco calendario di incontri con esponenti e maestri della cultura e della società civile italiana che ha punteggiato l’intero anno scolastico del liceo, facendo interloquire i ragazzi con personaggi del calibro di Margherita Hack o Andrea Camilleri, potremmo azzardare di aver già trovato nome e indirizzo di quella “città dell’istruzione” ipotizzata da Franco De Anna come meta per il futuro. Sia chiaro, però: nessuna retorica del fare scuola fuori dalla scuola. Non è certo una mera questione di luoghi. Si può infatti puntare sulla stessa “armonia prestabilita” tra fiducia e motivazione dando fin d’ora ai nostri ragazzi maggior campo anche nel chiuso delle nostre aule scolastiche, e nelle “stazioni” meno movimentate. Si può fare insomma una “scuola oltre la scuola” anche nelle celle della scuola-stazione. Ma trasformando le celle in quelle di un monastero (luogo chiuso, sì, ma dove le “due comunità” di cui ho parlato possono fondersi per consapevole con-divisione, almeno a tratti). O perfino in paradiso, vale a dire (letteralmente) “giardino” (dell’istruzione, o meglio ancora, della conoscenza). Cioè in un luogo fondato sulle potenzialità della comunità invisibile di cui si è parlato. E di cui parlerò ancora offrendo un esempio tratto dal mio spartito, nel prossimo “movimento”.

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Francesco Lizzani

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