Non è Elena a doversi adattare. I BES tra realtà e finzione
Due anni fa nella sezione scolastica dove lavoro è stata inserita una bambina di sei anni che era stata trattenuta nella scuola dell’infanzia in virtù di una diagnosi piuttosto pesante che indicava forti carenze sul piano cognitivo e su quello relazionale. Infatti Elena (la chiameremo così) urlava, era aggressiva nei confronti dei compagni, tentava di scappare e presentava un uso del linguaggio molto limitato.
Elena si è trovata bene nella nostra sezione; dopo pochi giorni, nei quali ha mostrato tutto il campionario dei comportamenti descritti nella diagnosi funzionale, ha iniziato gradualmente a limitare parecchio gli atti aggressivi, a non urlare più e a non nascondersi o scappare. Certo non è stato semplice relazionarsi con lei perché era ed è una bambina che pretende un’attenzione quasi esclusiva, difficile da ottenere in una sezione eterogenea composta di altri 25 bambini.
Noi insegnanti ci siamo mosse per tentativi ed errori, sperimentando situazioni relazionali diverse, inserendo Elena all’interno di differenti contesti e varie attività, nonostante la limitatezza degli spazi (una stanza) e dei materiali. Ci siamo accorte così che la bambina riusciva a relazionarsi in modo molto positivo anche con quei bambini che sembravano essere i bersagli prediletti dei suoi attacchi, che era capace di produzioni verbali e grafiche molto diverse da quelle usuali, purché fosse inserita in piccoli gruppi, all’interno di situazioni tranquille e silenziose e utilizzando strumenti appropriati. In particolare Elena ha mostrato molta attenzione nei giochi al computer a comando vocale.
Così, al primo GLIC successivo, abbiamo riportato queste nostre osservazioni e le scoperte fatte. Ma la neuropsichiatra ha confermato, su tutti i fronti, la pesante diagnosi.
Personalmente mi sono permessa d‘intervenire dicendo che non ero d’accordo: per me Elena era capace di fare molte delle cose che erano elencate come carenze e chiedevo di essere messa nelle condizioni di poter lavorare con la bambina, attraverso le modalità che avevamo visto funzionare.
La dottoressa, tra l’annoiato e l’infastidito, mi ha risposto che Elena si doveva abituare a vivere in un mondo dove c’erano tante persone, dove c’era confusione. Che non potevamo creare un mondo per lei, che anzi questo sarebbe stato dannoso perché avrebbe inibito la sua capacità di adattamento.
Ecco, adesso per me i BES sono questa cosa qui: un’ennesima sigla per non cambiare niente. La scuola vive, tra le altre cose, anche l’emergenza di non saper gestire le differenze che esistono tra gli esseri umani con cui dovrebbe lavorare.
La risposta all’emergenza è la certificazione che assolve da qualunque omissione di soccorso e da qualunque tipo di abbandono pedagogico. Perché di questo si tratta: per includere bisogna avere la voglia, la capacità e i mezzi (elencati in quest’ordine) per intervenire. E siccome non possiamo eliminare le differenze, l’unica cosa sulla quale possiamo intervenire è la scuola stessa, le sue strutture, la sua organizzazione e le sue regole.
Perché la scuola non dovrebbe essere il posto dove Elena impara a rassegnarsi a vivere una condizione di minorità, per adattarsi al mondo che troverà fuori.
La scuola per me dovrebbe essere il luogo che offre a Elena tutte le tutele e le garanzie e le opportunità per vivere una vita quanto più possibile piena e soddisfacente, nonostante le differenze. Il Ministero questo non lo vuole fare e, purtroppo, temo che non lo vogliano fare neanche molte scuole e neanche troppi insegnanti. E allora è ipocrisia parlare di bisogni e suona falso parlare d’inclusione. In questi anni ci siamo vantati di una scuola inclusiva in quanto aperta a tutti. Ma l’apertura della scuola, seppur rappresenti una condizione necessaria, non garantisce l’inclusione reale.
La storia di Elena ci aiuta a capire questa banale verità.
E ci ricorda anche che l’inclusione non è una necessità che nasce da un’ordinanza ministeriale che tratta dei BES. Che la scuola debba essere inclusiva è scritto nella Costituzione. Proprio per questo suona falso il richiamo a un nuovo dovere.
Se davvero avessimo voluto fare qualcosa di serio, si sarebbe dovuto procedere verso un monitoraggio dell’inclusività nelle scuole; ci saremmo domandati: “A che punto siamo?”. Il Ministero avrebbe dovuto verificare le pratiche inclusive – quali e quante – adottate dalle scuole e valutare il grado di efficacia in termini di successo formativo. Ma questo non lo facciamo neanche per i bambini “sani”, figuriamoci per quelli con bisogni speciali! Al Ministero dovrebbero verificare la professionalità degli operatori che si occupano di questi bisogni. Ogni giorno ci troviamo di fronte a diagnosi che sembrano fatte con lo stampo, risultato di osservazioni realizzate in serie, che vengono consegnate a insegnanti stanchi che non sanno e non vogliono sapere niente di difficoltà, di strumenti compensativi, che pensano che già i DSA siano sostegni mascherati e che bisognerebbe mandare messaggi chiari alle famiglie, ad esempio bocciando quei bambini. Inoltre, avrebbero dovuto riflettere sul fatto che ogni bambino ha un suo modo di apprendere e di relazionarsi.
La ricerca didattica sul curricolo verticale mette al centro questa peculiarità che è bene rispettare e valorizzare con una corretta dinamica tra continuità di metodo e di approccio e discontinuità di contenuti e di linguaggi.
Uno dei pochi strumenti che ha la scuola per affrontare questo tipo di difficoltà è di accompagnare i bambini, nei passaggi da un anno all’altro, da un segmento all’altro, attraverso una continuità reale fatta di comunicazione e condivisione di approcci e di stili educativi.
Infine, avrebbero dovuto pensare all’organizzazione, alla struttura. Non si può installare un software se l’hardware non lo supporta. La scuola deve adottare spazi e tempi caratterizzati da flessibilità, ma per far questo bisogna sapere di cosa c’è bisogno, di quale intervento proporre e, di conseguenza modificare la struttura in funzione di quell’intervento.
E deve avere a disposizione personale competente e motivato; deve poter contare su figure esterne che possano intervenire nei modi e nei tempi che si reputano necessari.
Di tutto questo non c’è parola nella normativa sui BES. Allora io non capisco di cosa stiamo parlando. Di quale inclusione, di quali bisogni?
Leggi “Non è Elena a doversi adattare”, il testo completo
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Paola Conti